da ilpuntosalute | 17 Mar, 2017 | Informazioni mediche
Una malattia infettiva è una patologia causata da agenti microbici o microrganismi che entrano in contatto con un individuo, si riproducono e causano un’alterazione funzionale: la malattia è quindi il risultato della complessa interazione tra il sistema immunitario e il microrganismo estraneo.
I microrganismi che causano le malattie infettive possono appartenere a diverse categorie e principalmente a virus, batteri o funghi.
Le malattie infettive di tipo virale sono causate da virus, entità elementari costituite da materiale genetico (RNA o DNA) circondato da una proteina, un lipide o da un rivestimento glicoproteico.
I virus, una volta entrati in contatto con una cellula ospite, inseriscono il proprio materiale genetico nella cellula stessa, assumendo la direzione delle sue funzioni.
La cellula, così infettata, continua a riprodursi, ma produce proteine virali e materiale genetico del virus anziché i prodotti usuali. La capacità del virus di trasmettersi dipende dal tipo di virus. Alcuni possono trasmettersi attraverso il semplice contatto, gli scambi di saliva, oppure vengono dispersi nell’aria tossendo o starnutendo e quindi inalati da un’altra persona.
Ritenute debellate o sotto controllo, con una mortalità inferiore rispetto ai tumori e alle patologie cardiovascolari, le malattie infettive, di origine batterica o virale, in realtà sono più che mai tra noi. C’è l’influenza, che ogni anno colpisce in Italia circa 5 milioni di persone. Le polmoniti, spesso associate all’influenza, con circa 200 mila casi l’anno e 10 mila decessi, e le meningiti. L’Herpes Zoster, che insieme a influenza e pneumococco forma la cosiddetta “triade maledetta” che minaccia le persone anziane. Ci sono le infezioni da Papillomavirus che possono causare tumori anogenitali. E ancora, le epatiti B e C con centinaia di migliaia di portatori cronici. Le infezioni batteriche multiresistenti che colpiscono ogni anno dal 7% al 10% dei pazienti con migliaia di decessi. Una delle infezioni virali più diffuse al mondo è quella da HCV, il virus dell’epatite C. Questo virus, attraverso l’attivazione del sistema immunitario, provoca la morte delle cellule epatiche (necrosi epatica). Le cellule epatiche distrutte dal virus sono sostituite da un tessuto cicatriziale, con la comparsa di noduli e di cicatrici che determinano la perdita progressiva della funzionalità del fegato. L’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di persone positive al virus dell’epatite C. Circa il 2% della popolazione italiana è entrata in contatto con l’HCV e il 55% dei soggetti con HCV è infettata dal genotipo 1. E i portatori cronici del virus sono circa 1 milione, di cui oltre 300 mila diagnosticati: più di 20 mila persone muoiono ogni anno per malattie croniche del fegato (due persone ogni ora) e, nel 65% dei casi, l’epatite C risulta causa unica o concausa dei danni epatici.
La minaccia delle malattie infettive, di origine virale e batterica, è stata centro dell’evento AHEAD (Achieving HEealth through Anti-infective Defense) che si è svolto a Roma e dove rappresentanti di Istituzioni, Autorità regolatorie, associazioni pazienti e clinici hanno fatto il punto sulle strategie di contrasto che il nostro Paese sta mettendo in campo contro le malattie infettive, mostrando una grande capacità di innovazione, grazie a scelte all’avanguardia in Europa, come il Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale, approvato all’inizio dell’anno, e il Piano contro la resistenza agli antibiotici, il cui varo è imminente.
“Il nuovo Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale 2017-2019, approvato in Conferenza Stato-Regioni il 19 gennaio 2017, individua strategie efficaci e omogenee da implementare sull’intero territorio nazionale dando ampio rilievo alla garanzia dell’offerta attiva e gratuita delle vaccinazioni prioritarie per le fasce d’età e popolazioni a rischio indicate. L’offerta vaccinale adesso è ampia e tra le più avanzate nel mondo”, afferma Ranieri Guerra, Direttore Generale Prevenzione Sanitaria, Ministero della Salute.
La prossima sfida è l’applicazione uniforme del nuovo Piano in tutte le Regioni italiane per assicurare a tutti i cittadini l’accesso equo ai vaccini.
Altro fronte aperto è quello dell’infezione da virus dell’epatite C (HCV). Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha annunciato l’obiettivo dell’eliminazione delle epatiti a livello globale entro il 2030 e tutti i Governi dei Paesi industrializzati – Italia in testa – stanno adottando misure in tal senso. L’eliminazione dell’epatite C passa attraverso l’accesso a terapie antivirali di nuova generazione in grado di eradicare il virus nella maggioranza dei casi.
Se negli ultimi 70 anni l’avanzata delle malattie infettive di origine batterica ha trovato un muro, questo muro è stato rappresentato dagli antibiotici. Ma in anni recenti, l’antibiotico-resistenza, la capacità cioè dei batteri di resistere agli antibiotici, è cresciuta fino a diventare un problema drammatico. In Italia, la resistenza agli antibiotici si mantiene tra le più elevate in Europa. La risposta da dare su questo altro fronte passa per procedure di buona pratica clinica, uso appropriato degli antibiotici introducendo il concetto di stewardship, ossia la possibilità di razionalizzare l’uso degli antibiotici, e la ricerca di nuove terapie antibiotiche in grado di sconfiggere i batteri resistenti. Principi che ispirano il Piano contro la resistenza agli antibiotici che sarà varato in primavera.
da ilpuntosalute | 16 Mar, 2017 | Informazioni mediche
È il primo e unico vaccino efficace contro nove tipi di Papillomavirus, uno dei virus più diffusi al mondo e secondo agente patogeno responsabile di cancro a livello globale. D’ora in poi, le ragazze e i ragazzi italiani potranno proteggersi contro nove tipi di Papillomavirus umano.
Il 21 febbraio è stato, infatti, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto di riclassificazione in classe H de vaccino indicato per prevenire con efficacia ancora maggiore le lesioni precancerose, i tumori che colpiscono il collo dell’utero, la vulva, la vagina, l’ano e i condilomi genitali causati dai 9 tipi di HPV in adolescenti maschi e femmine a partire dai 9 anni di età.
Le infezioni da HPV possono causare proliferazioni cellulari che si manifestano sotto forma di tumori benigni come i condilomi genitali, o di altre lesioni come le neoplasie intraepiteliali cervicali (CIN) e le lesioni nettamente tumorali. La maggioranza delle lesioni precancerose regredisce spontaneamente; tuttavia, soprattutto nelle lesioni causate dai tipi HPV ad alto rischio, si osserva un rischio significativo di progressione delle lesioni in carcinomi.
Il Papillomavirus è estremamente diffuso: quasi tutte le persone sessualmente attive possono contrarlo. Il 60-90% delle infezioni da HPV, incluse quelle da tipi oncogeni, si risolve entro 1-2 anni dal contagio. A volte, però, il sistema immunitario non riesce a eliminarlo: l’infezione si sviluppa in modo quasi sempre silente e nell’arco di circa 5 anni può condurre alla formazione di lesioni precancerose che possono progredire fino a sviluppare il cancro della cervice o altre forme di tumore ano-genitale in entrambi i sessi anche a distanza di 20-40 anni.
In Europa, ogni anno 39.500 tumori ano-genitali, 342.000 casi di lesioni ano-genitali di alto grado e 760.000 casi di condilomi genitali sono causati dai tipi di HPV coperti dal vaccino 9-valente. In Italia, si stima che ogni anno l’HPV sia responsabile di circa 6.500 nuovi casi di tumori in entrambi i sessi, circa 12.000 lesioni ano-genitali di alto grado nella donna e circa 80.000 casi di condilomi genitali. Ad esclusione del cancro della cervice uterina, per il quale esiste lo screening, per gli altri tumori causati da HPV non si dispone di un test per la diagnosi precoce e, pertanto, essi hanno una mortalità molto elevata in entrambi i sessi.
La vaccinazione anti-HPV è, infatti, stata estesa ai maschi adolescenti dal nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale 2017-2019, incluso nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). “Il dodicesimo anno di vita – riporta il nuovo Piano Nazionale Prevenzione Vaccinale – è l’età preferibile per l’offerta attiva della vaccinazione anti-HPV a tutta la popolazione (femmine e maschi). Sulla base delle nuove e importanti evidenze scientifiche, infatti, la sanità pubblica oggi si pone come obiettivo l’immunizzazione di adolescenti di entrambi i sessi, per la massima protezione da tutte le patologie HPV correlate direttamente prevenibili con la vaccinazione”.
Sette dei nove tipi di HPV inclusi nel vaccino (HPV 16, 18, 31, 33, 45, 52 e 58) sono ad alto rischio oncogeno e causano nel mondo circa il 90% dei tumori del collo dell’utero, il 90% dei casi di cancro anale HPV correlati e circa l’80% delle lesioni cervicali di alto grado (lesioni cervicali precancerose definite CIN 2, CIN 3 e AIS). I due tipi di HPV a basso rischio oncogeno 6 e 11, oltre a essere causa del 90% dei condilomi genitali, sono al terzo posto di frequenza tra i tipi di HPV che causano cancro della vagina o del pene, quarti nel cancro della vulva e quinti nel cancro dell’ano.
“Il nuovo vaccino rafforza notevolmente l’intervento di Sanità Pubblica, grazie all’inclusione di ceppi virali non contenuti nei vaccini disponibili fino a oggi, e aumenta la copertura antitumorale dal 70% al 90% dei ceppi oncogeni. Inoltre, consentirà di sconfiggere i condilomi genitali che, oltre ad essere molto fastidiosi, assorbono appunto risorse investibili altrove”, precisa Fausto Francia, Presidente SItI (Società Italiana di Igiene, Medicina Preventiva e Sanità Pubblica).
Con il Papillomavirus la fertilità è a rischio anche per gli uomini. E il 70% contrae l’infezione. Andrea Lenzi, Presidente SIE (Società Italiana di Endocrinologia) fa luce su questi punti.
L’infezione da HPV colpisce esclusivamente le donne? Quali sono e qual è l’incidenza in Italia per i tumori e le altre patologie causate dal Papillomavirus nell’uomo?
Non è assolutamente vero che l’infezione da Papillomavirus colpisca esclusivamente le donne. Come gli altri virus a trasmissione sessuale, l’HPV colpisce in uguale percentuale gli uomini e le donne. Nella maggior parte dei casi l’infezione è transitoria e asintomatica. Tuttavia, se l’infezione persiste, può manifestarsi con una varietà di lesioni della pelle e delle mucose, a seconda del tipo di HPV contratto. Alcuni tipi di HPV sono definiti ad “alto rischio oncogeno” poiché associati all’insorgenza di tumori. In Italia si rileva una prevalenza dell’8% di HPV associati al cancro nella popolazione generale. Circa il 70% dei soggetti di sesso maschile contrae un’infezione da uno o più ceppi di HPV durante l’arco della vita. In Italia è stata anche dimostrata una maggiore prevalenza di condilomatosi nel sesso maschile, soprattutto tra i giovani di età inferiore ai 25 anni, con un preoccupante trend in aumento negli ultimi anni.
Quali sono le conseguenze per l’uomo dei tumori causati dal Papillomavirus e quali sono le conseguenze dell’HPV sulla fertilità e sulle prospettive di genitorialità di questi pazienti?
Le neoplasie HPV-correlate nell’uomo riguardano principalmente l’apparato genitale e il distretto orofaringeo. L’80-95% delle neoplasie anali, almeno il 50% delle neoplasie del pene e il 45-90% delle neoplasie della testa e del collo sono correlate ad HPV. I tumori dell’orofaringe sono 4 volte più frequenti nel maschio rispetto alle femmine e sono principalmente causati, in almeno il 60% dei casi, da HPV 16. Gli studi più recenti hanno evidenziato come il Papillomavirus sia potenzialmente in grado di ridurre la fertilità, riducendo la motilità degli spermatozoi, e di interferire anche con lo sviluppo dell’embrione, aumentando il rischio di aborti. È stato inoltre osservato come l’infezione maschile da HPV sia un fattore di rischio per l’insuccesso della fecondazione assistita.
da ilpuntosalute | 6 Mar, 2017 | Informazioni mediche
In Italia, oltre un quarto della popolazione, circa 16 milioni di persone, è tra i 50 e i 70 anni. Pur mostrandosi sempre più attente al proprio benessere, non ritiene soddisfacente il proprio stato di salute. È quanto emerge dai dati dai dati dell’Istituto Superiore di Sanità.
– una persona over 50 su tre è completamente sedentaria
– nove su dieci non riescono a seguire una corretta alimentazione
– quasi la metà non ritiene soddisfacente il proprio stato di salute.
In occasione del convegno “Sport, Alimentazione, Vitalità a Misura di Senior” patrocinato da Regione Lazio, CONI e Italia Longeva è stata presentata la campagna Vivi con Vigore, un progetto organizzato da A.S.C. Vitattiva e Abbott per contribuire a promuovere educazione sui corretti stili di vita.
Vivere una vita più sana e prevenire le patologie tipiche della terza età è possibile se si è opportunamente informati e coinvolti, così come emerge da una recente survey condotta da A.S.C. Vitattiva. L’associazione ha chiesto alle persone over 50 che prendono parte alle attività motorie e sociali proposte un’opinione in merito alle proprie abitudini salutari e ha trovato che:
– il 63 % svolge regolarmente un’attività fisica
– l’80% segue un’alimentazione il più possibile sana e bilanciata
– il 68% socializza e partecipa alle diverse attività
– il 75% afferma di affrontare la vita quotidiana con più energia.
“L’efficacia della combinazione sinergica tra nutrizione, attività fisica e socializzazione resta valida a tutte le età. Il segreto per restare in forma sta nel mantenere sempre in movimento mente e corpo con attività studiate e personalizzate nel rispetto delle singole possibilità – afferma Alfonso Rossi, Presidente A.S.C. Vitattiva -. Non è mai troppo tardi per correggere il proprio stile di vita, perseguire nuove passioni e porre al centro felicità e benessere”.
A partire dai 40 anni si comincia a perdere per ogni decade l’8% della massa muscolare.
Uno studio pubblicato recentemente sul Journal of the American Medical Directors Association, conferma l’importanza di intervenire su forza ed efficienza muscolare per migliorare la qualità di vita e prevenire le patologie tipiche della terza età.
“Ad Expo 2015, abbiamo condotto una survey su oltre 3 mila visitatori che ha dimostrato la correlazione tra età e perdita di forza ed energia – dichiara Francesco Landi, Professore associato presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma -. Abbiamo dimostrato inoltre la correlazione tra un adeguato apporto proteico, una regolare attività fisica e il mantenimento della massa e della forza muscolare nei senior, a conferma dell’importanza della sana alimentazione e del movimento dopo i 50 anni”.
Oltre al movimento, un’alimentazione sana, che include una buona scelta di cibi ricchi di proteine, può contribuire a mantenere nel tempo la massa muscolare e il normale funzionamento dei muscoli e delle ossa.
“Seguire una dieta equilibrata può essere una vera sfida oggi, tra pasti frettolosi e cattive abitudini a tavola. Ecco perché, in questi casi, è importante seguire i consigli di uno specialista della nutrizione – afferma Evelina Flachi, specialista in scienza dell’alimentazione e nutrizionista -. Per una buona condizione fisica muscolare e per favorire un buono stato di salute non devono mancare nella dieta tutti i nutrienti, nelle diverse proporzioni e in relazione agli individuali consumi energetici e stili di vita”.
Attraverso l’adozione di corretti stili di vita, un’alimentazione sana e intelligente, un regolare esercizio fisico e un atteggiamento positivo, è possibile restare in forma, sentirsi bene e ritrovare forza e vitalità.
Per saperne di più sulla campagna Vivi con Vigore, che si compone di un portale web compatibile con tablet e smartphone, materiali informativi su salute e nutrizione e incontri di sensibilizzazione.
A.S.C. Vitattiva
VITATTIVA nasce nel 2002 ed è un’organizzazione che promuove e realizza attività di prevenzione, per la salute e il benessere, favorendo i corretti stili di vita con la finalità di un invecchiamento attivo per il mantenimento della propria autosufficienza. Ha come obiettivo quello di mantenere sempre in movimento Mente e Corpo con attività studiate e mirate alle diverse fasce di età.
da ilpuntosalute | 20 Feb, 2017 | Informazioni mediche
Il mieloma multiplo (MM) è un tumore del sangue ad oggi incurabile, che colpisce le plasmacellule, un tipo di cellule del midollo osseo che in condizioni normali contribuiscono a combattere le infezioni. Quando le plasmacellule diventano tumorali e si moltiplicano troppo velocemente, vengono dette cellule mielomatose.
L’accumulo di queste cellule porta alla formazione di lesioni tumorali nelle ossa di tutto il corpo. Il midollo osseo sano produce cellule staminali da cui si generano globuli rossi che trasportano ossigeno nel corpo, globuli bianchi che combattono infezioni e malattie, o piastrine essenziali nella coagulazione del sangue.
I problemi di salute causati dal mieloma multiplo possono coinvolgere le ossa, il sistema immunitario, i reni e i globuli del sangue.
Il mieloma multiplo è una malattia rara e rappresenta circa l’1% di tutti i tumori. È caratterizzato da un modello ricorrente di remissione e recidiva. Si parla di remissione nel mieloma multiplo quando non sono presenti segni clinici o sintomi. Si parla, invece, di recidiva quando i segni o i sintomi della malattia ritornano dopo un periodo di miglioramento. La capacità di raggiungere e mantenere una risposta significativa ai trattamenti diminuisce ad ogni recidiva a causa della resistenza acquisita ai farmaci e della progressione biologica della malattia: per ogni successiva recidiva si osserva una diminuzione in termini di tasso di risposta di circa il 58% in seconda linea, del 45% in terza linea, del 30% in quarta linea e del 15% in quinta linea, con una riduzione dell’aspettativa di vita dopo ogni ricaduta. Quando una malattia è refrattaria significa che non risponde più al trattamento.
In Italia convivono con un mieloma multiplo, a 5 anni dalla diagnosi, 13.983 persone di età media attorno ai 65 anni (80% dei casi d’insorgenza dopo i 60 anni). Ogni anno si contano 5.200 nuovi casi e 3.200 decessi, a 5 anni dalla diagnosi solo il 45% dei pazienti sopravvive.
“Il mieloma multiplo è una patologia dell’anziano, tanto che l’incidenza non è uniforme nelle differenti fasce d’età è molto bassa nei soggetti di età inferiore ai 55 anni, meno di 1 caso per 100.000 per anno, arriva a 12 casi per 100 mila ogni anno nella fascia d’età compresa tra i 56 e i 64 anni, arrivando fino a 30 nuovi casi per 100 mila abitanti ogni anno nei soggetti di età superiore ai 65 anni – afferma Fabrizio Pane, Direttore U.O. Ematologia e Trapianti, A.O.U. “Federico II”, Napoli e Presidente SIE – Società Italiana di Ematologia –. In Italia l’incidenza stimata è di 8,75 nuovi casi per 100.000 abitanti per anno, ovvero circa 5.600 nuovi casi ogni anno; nel nostro Paese si stimano oggi quasi 30.000 pazienti in trattamento o in monitoraggio”.
È arrivato in Italia il primo degli inibitori irreversibili del proteasoma di seconda generazione per il trattamento del mieloma multiplo recidivato. Grazie a un meccanismo d’azione innovativo che inibisce il proteasoma con un’azione dura e selettiva si sono ottenuti risultati consistenti negli studi clinici e il farmaco ha dimostrato di influire positivamente anche sulla qualità di vita dei pazienti trattati, con miglioramenti subito percettibili, ad esempio nel sollievo per il dolore osseo, e un buon profilo di tossicità.
“Due studi pubblicati su Journal Clinical Oncology e Lancet Oncology hanno chiaramente dimostrato che tale farmaco è in grado di migliorare la qualità di vita dei pazienti rispetto ai pazienti trattati con la terapia convenzionale di controllo questa è la dimostrazione che l’efficacia di un farmaco, valutata dai medici in termini numerici di riduzione della massa tumorale, è percepita in modo positivo dai pazienti con un obiettivo miglioramento della loro qualità di vita”, sottolinea Mario Boccadoro, Direttore di Clinica Ematologica I, Università degli Studi di Torino.
Sintomi del Mieloma multiplo
La causa precisa del mieloma multiplo non è ancora conosciuta.
Nei primi stadi della malattia non sono presenti sintomi, rendendo molto difficile una diagnosi precoce.
I sintomi e i segni del Mieloma multiplo possono comprendere, ma non limitarsi a:
- Sanguinamento anomalo
- Dolore alle ossa e o alla schiena
- Fratture alle ossa della spina dorsale, dell’anca e del cranio
- Bassi livelli dei valori dell’emocromo
- Alti livelli di calcio nel sangue
- Sintomi al sistema nervoso, comprendenti compressione del midollo spinale, danni ai nervi e iperviscosità
- Problemi ai reni
- Infezioni
Fattori di rischio
Gli specialisti hanno rilevato alcuni fattori di rischio che possono influenzare le probabilità di avere il mieloma multiplo. Quelli più comuni sono:
- Età: la malattia si verifica più frequentemente in persone tra i 65-74 anni
- Storia familiare: avere un parente stretto con mieloma multiplo aumenta di quattro volte il rischio
- Genere: negli Stati Uniti, l’incidenza è più alta di 1,5 fra gli uomini rispetto alle donne
- Radiazioni: l’esposizione ad alte quantità di radiazioni, in gran parte dovute a fattori ambientali
- Razza: più comune fra le persone di origine africana
- Peso: essere in sovrappeso
- Avere altre malattie delle plasmacellule: molte persone con gammopatia monoclonale di significato incerto o plasmacitoma solitario potrebbero sviluppare il mieloma multiplo.
Diagnosi
Analisi di laboratorio su sangue e/o urine, risonanza magnetica e una biopsia del midollo osseo possono essere eseguite su persone che presentano i sintomi del mieloma multiplo.
- Test di laboratorio: le analisi del sangue e delle urine possono determinare se è presente una quantità anomala di proteine che può segnalare la diagnosi del mieloma multiplo1
- Test di imaging: radiografie, risonanza magnetica, TAC o la PET (tomografia ad emissione di positroni) possono essere eseguite per identificare lesioni alle ossa associate al mieloma multiplo10
- Biopsia del midollo osseo: le biopsie del midollo osseo determinano se ci sono plasmacellule anomale nel midollo osseo e possono anche essere utili per analizzare le loro anomalie cromosomiche.10
Trattamenti
Al momento non esistono cure risolutive per il mieloma multiplo: l’obiettivo dei trattamenti che vengono utilizzati è alleviare la sofferenza, controllare le complicanze della malattia, stabilizzare le condizioni cliniche e rallentare il progredire della malattia.1 I trattamenti prescritti per il mieloma multiplo dipendono in gran parte dallo stadio della malattia e dal singolo paziente.1
Le opzioni di trattamento possono comprendere una o una combinazione delle seguenti terapie:
- Chemioterapia e corticosteroidi per uccidere le cellule del mieloma2
- Terapie mirate per bloccare la crescita ed eliminare le cellule del mieloma2
- Alte dosi di chemioterapia con trapianto di midollo osseo o di cellule staminali ematopoietiche per sostituire le cellule malate2
- Bifosfonati per ridurre il dolore osseo e le fratture2
- Radioterapia per trattare le lesioni ossee o per alleviare il dolore.1
da ilpuntosalute | 3 Feb, 2017 | Informazioni mediche
I microbi o microrganismi sono organismi minuscoli che non possono essere visti a occhio nudo.
La maggior parte dei microbi appartiene a uno dei quattro grandi gruppi: batteri, virus, funghi o protozoi.
La resistenza antimicrobica (AMR-antimicrobialresistance) è la resistenza di un microrganismo a un trattamento antimicrobico, che era originariamente efficace per trattare le infezioni causate dallo stesso microrganismo.
I microrganismi resistenti sono in grado di resistere all’attacco di trattamenti antimicrobici come antibiotici, antifungini e antivirali.
Negli ultimi 70 anni, i trattamenti antimicrobici sono stati usati per curare pazienti con malattie infettive, salvando milioni di vite in tutto il mondo.
Nel corso degli anni, tuttavia, l’uso e l’abuso degli antimicrobici ha incrementato il numero e i tipi di organismi resistenti.
Gli antibiotici sono tra le terapie più comunemente prescritte nella medicina umana.
Si stima che più del 50% di tutti gli antibiotici prescritti non siano necessari o non abbiano l’efficacia ottimale in base a come sono prescritti.
Ogni anno, migliaia di persone nel mondo contraggono gravi infezioni batteriche resistenti a uno o più degli antibiotici sviluppati per il loro trattamento:
– 2 milioni di persone negli Stati Uniti
– 400 mila persone nell’Unione Europea, Norvegia e Islanda.
Un nuovo potente antibiotico è un’importante innovazione per il trattamento delle infezioni causate da batteri multiresistenti agli antibiotici. Il nuovo antibiotico è composto da ceftolozano, una nuova cefalosporina, e tazobactam, un inibitore delle beta-lattamasi dall’uso ben consolidato nella pratica clinica. Ceftolozano colpisce l’integrità della parete cellulare dei batteri Gram-negativi sensibili, eludendo inoltre i molteplici meccanismi di resistenza messi in atto dai patogeni, mentre tazobactam protegge ceftolozano, facendo sì che non venga inattivato da parte degli enzimi beta-lattamasi prodotti dai batteri Gram-negativi.
“L’antibiotico-resistenza è un fenomeno pericoloso. I batteri sono naturalmente attrezzati per difendersi dagli antibiotici e il contatto con questi farmaci accelera questo processo. Per questo le terapie antibiotiche devono essere aggressive, mirate, prescritte per il tempo necessario e alle dosi corrette – afferma Pierluigi Viale, Direttore U.O. di Malattie Infettive all’A.O.U. Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna e Professore ordinario di Malattie Infettive all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna -. Ceftolozano/tazobactam è il primo di una serie di nuovi antibiotici, in grado di rispondere ai criteri dell’antimicrobial stewardship: il suo spettro d’azione molto mirato, quasi chirurgico, permette di utilizzarlo nei confronti di specifici profili di resistenza massimizzando quindi l’efficacia della terapia, evitando cosi l’ulteriore selezione di specie resistenti”.
Cosa si intende per antibiotico-resistenza?
Il termine antibiotico-resistenza definisce la capacità dei microrganismi di mettere in atto meccanismi di evasione dagli antibiotici. Come sappiamo, i microrganismi hanno la capacità di replicarsi assai velocemente e questo induce un’elevata probabilità di generare nella propria progenie forme secondarie di ceppi mutanti. La percentuale di mutazioni spontanee è molto più significativa quando i microrganismi sono sottoposti a situazioni stressanti: in questi casi infatti le mutazioni aumentano come meccanismo di difesa del microrganismo. Uno dei fattori più stressanti per un microrganismo è l’esposizione ad antibiotici, specie se costante, prolungata e a basse dosi: semplificando al massimo, se gli antibiotici non uccidono rapidamente il batterio, i ceppi che sopravvivono diventano resistenti. Il secondo meccanismo maggiore di induzione di resistenza è lo scambio di frammenti genetici da un microrganismo all’altro. I batteri possiedono piccole sequenze del loro genoma che possono “saltare” da uno all’altro, i cosiddetti “jumping genes” di cui esistono tante forme; una, in particolare, la più efficiente, è rappresentata dai plasmidi, piccole pallottole di DNA sparate letteralmente da un microrganismo all’altro che possono provocare una multiresistenza.
Perché l’antibiotico-resistenza è considerata un’emergenza mondiale?
L’antibiotico-resistenza è un fenomeno pericoloso. Ricordiamo che i batteri sono naturalmente attrezzati per difendersi dagli antibiotici e il contatto con questi farmaci accelera questo fisiologico processo. Pochi anni fa, studiando reperti animali e vegetali conservati nel ghiaccio eterno, sono stati scoperti determinanti genetici di resistenza agli antibiotici che usiamo oggi: ciò significa che i batteri posseggono già nel loro patrimonio genetico i determinanti di resistenza, evidenza che spiega perché i microrganismi fanno più in fretta a trovare vie di fuga dagli antibiotici che i ricercatori a trovarne di nuovi. Per questo motivo più le terapie antibiotiche sono aggressive, mirate, prescritte per il tempo necessario e alle dosi corrette, meno facile è per le popolazioni batteriche la selezione di specie resistenti. Al contrario, terapie inutili, troppo lunghe o sottodosate, rappresentano un formidabile strumento di selezione. Oggi per alcune specie batteriche siamo davvero a un passo dal baratro, molto prossimi all’era post-antibiotica, è una situazione di emergenza assoluta tanto che nelle loro proiezioni, i CDC di Atlanta prefigurano scenari apocalittici con milioni di morti correlate ad infezioni da ceppi microbici multiresistenti. Dobbiamo essere consapevoli che i medici che saranno sul campo tra venti o trent’anni potrebbero essere costretti loro malgrado a gestire molte infezioni in assenza di antibiotici efficaci. Pertanto, dobbiamo evitare ad ogni costo che questa deriva continui o che si acceleri, per evitare l’incubo che il super-bug diventi una realtà.
Cosa significa antimicrobial stewardship? Come può l’antimicrobial stewardship contribuire a contrastare il fenomeno dell’antibiotico-resistenza?
“Antimicrobial stewardship” è un termine anglosassone che indica un approccio di sistema alla terapia antibiotica. Questo significa che quando prescrive un antibiotico il medico deve garantire al paziente non solo che la terapia prescritta sia la migliore possibile per lui ma anche la più virtuosa per l’ecosistema in cui paziente vive. Insomma, il medico ha il dovere di rispettare una sorta di doppio contratto terapeutico, con il paziente e con l’ambiente. L’antimicrobial stewardship è, dunque, un complesso di interventi finalizzati a garantire il miglior trattamento del paziente senza danni collaterali sull’ecosistema. Si tratta di mettere in atto alcune regole che puntano a contrastare l’abuso, le cattive prescrizioni, le prescrizioni inutili, la medicina difensiva, etc. Quel che è urgente è la formazione per i nuovi medici: occorre in tal senso un enorme sforzo per instaurare un reale cambio di mentalità rispetto al concetto che gli antibiotici non sono farmaci alla portata di tutti e per tutti, ma che invece vanno gestiti oculatamente da esperti.
L’antimicrobial stewardship è fondamentale perché cerca di farci usare bene quello che oggi abbiamo a disposizione e di introdurre le novità in percorsi di uso corretto. L’antibiotico invulnerabile non esiste, quindi anche i nuovi farmaci dovranno essere usati con estremo giudizio, altrimenti tra 5-10 anni potremmo perdere anche l’innovazione di oggi.
Quali sono le evidenze a sostegno dell’efficacia di ceftolozano/tazobactam, nuovo antibiotico disponibile anche in Italia? Perché rappresenta una nuova importante opzione contro le resistenze?
Due studi hanno dimostrato che ceftolozano/tazobactam è efficace quanto altri antibiotici nella cura di specifiche infezioni. Il primo è un trial clinico su 1.083 pazienti con infezioni complicate delle vie urinarie nel quale ceftolozano/tazobactam è stato confrontato con levofloxacina: ceftolozano/tazobactam ha eliminato l’infezione nell’85% dei pazienti trattati rispetto al 75% dei casi trattati con la terapia di confronto. Il secondo trial clinico è stato condotto su 993 pazienti con infezioni complicate intra-addominali: ceftolozano/tazobactam è stato confrontato con meropenem, entrambi hanno portato a guarigione il 94% dei pazienti trattati. Avendo a disposizione due trial clinici idonei a garantire la commercializzazione, adesso inizia un’ulteriore fase di ricerca sul campo dove il farmaco si dovrà confrontare con ulteriori problematiche cliniche. Ceftolozano/tazobactam è sicuramente un “superfarmaco” contro la Pseudomonas aeruginosa multiresistente e nei confronti delle Enterobacteriaceae, produttrici di beta-lattamasi a spettro esteso (ESBL). Per questo dovrà essere usato da medici esperti rispetto a precise necessità, che potrebbero andare anche oltre i risultati dei trial clinici. Ceftolozano/tazobactam è il primo di una serie di nuovi antibiotici con uno spettro molto mirato, quasi chirurgico, nei confronti di specifici profili di resistenza e rappresenta una prima risposta della ricerca alle problematiche di chi si occupa di infezioni “difficili” ed alle necessità di pazienti ed operatori sanitari, per cui il suo uso, così come quello dei farmaci che seguiranno, non deve essere assolutamente banalizzato o lasciato in mani inesperte.
da ilpuntosalute | 26 Gen, 2017 | Informazioni mediche
La Leucemia Mieloide Acuta (LMA) è una forma aggressiva di tumore ematologico e del midollo osseo. Questa malattia si caratterizza per la mancata maturazione dei globuli bianchi, con conseguente accumulo di “blasti” che vanno ad occupare lo spazio delle normali cellule ematiche.
La LMA è la forma di leucemia acuta più frequente dell’adulto/anziano, con un’incidenza massima sopra i 60 anni d’età, e presenta i tassi di sopravvivenza più bassi. A livello globale i tassi di incidenza più elevati registrati negli Stati Uniti, in Europa e in Australia. Colpisce entrambi i sessi con una lieve preferenza per quello maschile.
La Leucemia Mieloide Acuta origina dalle cellule midollari della linea mieloide (quella da cui derivano i globuli rossi, i globuli bianchi e le piastrine) e si definisce “acuta” perché le cellule leucemiche crescono molto rapidamente. Le cellule maligne nate nel midollo osseo si diffondono nel sangue e anche in alcuni organi come linfonodi, fegato, milza.
Diversi fattori, genetici e ambientali, possono aumentare la probabilità di ammalarsi di questo tumore del sangue favorendo lo sviluppo di alterazioni cromosomiche identificabili in una significativa percentuale di casi già al momento della diagnosi.
Si distinguono tre tipi di Leucemia Mieloide Acuta:
- primaria, o “de novo” a insorgenza primitiva;
- secondaria a una precedente sindrome mielodisplastica o mieloproliferativa cronica;
- secondaria a esposizione a sostanze tossiche/chemioterapia/radioterapia.
I sintomi della Leucemia Mieloide Acuta consistono in perdita di peso, stanchezza, febbre, sudorazioni notturne, perdita di appetito, mancanza di fiato, ipersensibilità al freddo, aumentato rischio di sanguinamento e infezioni.
La caratterizzazione della Leucemia Mieloide Acuta si ottiene attraverso una serie di analisi di citomorfologia e citochimica per visualizzare le cellule leucemiche, i blasti; l’immunofenotipo per individuare mediante anticorpi monoclonali alcune specifiche proteine espresse sulla superficie delle cellule leucemiche; la biologia molecolare per individuare le mutazioni o altre aberrazioni geniche.
La diagnosi comporta un esame microscopico con lo striscio di sangue periferico e l’esame del midollo osseo per individuare i blasti.
Il trattamento della Leucemia Mieloide Acuta si basa attualmente sulla chemioterapia standard seguita dall’eventuale trapianto di cellule emopoietiche. La chemioterapia comprende due fasi: induzione, per portare in remissione la malattia, e consolidamento, che è una terapia di post-remissione.
La prognosi dipende dall’età del soggetto, da patologie associate e dalle alterazioni molecolari alcune delle quali, come FLT3, hanno valore prognostico molto sfavorevole.
Oltre il 50% dei pazienti con Leucemia Mieloide Cronica in remissione completa a un anno dalla sospensione della terapia, secondo i più recenti dati degli studi clinici e un numero crescente di pazienti italiani può accedere a LabNet, il network italiano per la diagnostica molecolare realizzato dal GIMEMA – Gruppo Italiano Malattie EMatologiche dell’Adulto. E prima innovazione terapeutica dopo 25 anni, nuove prospettive di cura per la Leucemia Mieloide Acuta grazie a midostaurina, un farmaco che aumenta in modo significativo la sopravvivenza; mentre approcci terapeutici innovativi andranno presto a impattare sulla comune pratica clinica e sul trattamento di tutte le più importanti malattie del sangue. Si è parlato di questo durante la XI edizione della “Giornata Nazionale per la lotta contro leucemie, linfomi e mieloma” promossa da AIL, sotto l’Alto Patronato della Presidenza della Repubblica.
“Ogni anno la Giornata Nazionale si concentra su temi diversi: quest’anno ci siamo occupati soprattutto di diagnostica, terapia e qualità di vita dei pazienti affetti da Leucemia Mieloide Cronica che grazie alle terapie che hanno rivoluzionato la cura oggi hanno una prospettiva di vita molto simile a quella delle persone sane – dichiara Franco Mandelli, ematologo di fama internazionale e Presidente Nazionale AIL -. Il focus sui risultati più recenti relativi alle cure legate alla LMC e sulla possibilità di sospendere la cura e quindi di poter considerare questa malattia finalmente guaribile”.
Il quadro di riferimento che ha reso possibili questi sviluppi è quello dell’Ematologia di precisione, l’approccio che unisce terapie mirate e diagnostica molecolare avanzata per calibrare le terapie sulle caratteristiche molecolari delle malattie del sangue con grandi benefici in termini di efficacia e minori effetti collaterali.
“Nell’Ematologia è in corso una vera propria rivoluzione e la ricerca italiana ne è protagonista come confermano il numero delle pubblicazioni presentate e l’autorevolezza riconosciuta ai nostri ricercatori negli ultimi appuntamenti internazionali – afferma Fabrizio Pane, Professore ordinario di Ematologia, Direttore Unità Operativa di Ematologia e Trapianti dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli e Presidente SIE, Società Italiana di Ematologia -. Apripista di questa rivoluzione è stata la Leucemia Mieloide Cronica, la prima patologia del sangue per la quale sono stati sviluppati farmaci mirati al bersaglio molecolare, gli inibitori della tirosin-chinasi, in grado di indurre significative e persistenti risposte di malattia in oltre il 90% dei pazienti, un numero crescente dei quali interrompe il trattamento, poiché in remissione molecolare profonda di malattia”.
da ilpuntosalute | 23 Gen, 2017 | Informazioni mediche
Dolore addominale, meteorismo, gonfiore e irregolarità sono i principali sintomi che caratterizzano della Sindrome dell’Intestino Irritabile (IBS). Una patologia di per sé non grave, ma con importanti ripercussioni sulla vita sociale e affettiva del paziente. La diagnosi non di rado è tardiva, perché inizialmente sottovalutata dagli stessi pazienti e perché i suoi sintomi sono spesso contrastati in modo inadeguato con un casuale, inefficace e a volte dannoso “fai da te”.
Per analizzare la considerevole dimensione socio-sanitaria di questa patologia, il Censis ha condotto un’indagine qualitativa con particolare riferimento a una delle sue forme più diffuse. Lo studio è stato condotto per mezzo di otto interviste qualitative a pazienti con IBS-C diagnosticato e in cura presso altrettanti centri specializzati nella cura di questa condizione distribuiti tra nord, centro e sud.
In generale l’IBS si presenta frequentemente in tutte le fasce d’età con una lieve diminuzione all’aumentare dell’età ed è maggiormente frequente nel sesso femminile. Inoltre, esistono potenziali fattori di rischio sia di natura somatica, come la celiachia e le infezioni intestinali, che psicologica, come lo stress. I sintomi sono ben definiti: dolore, gonfiore e stipsi o diarrea. Più nello specifico l’incidenza dell’IBS associata a costipazione (IBS-C) si stima intorno al 25 per cento dei soggetti con IBS.
In Italia sono pochi gli studi epidemiologici sull’IBS e in particolare sono del tutto assenti quelli condotti nell’ambito delle cure primarie. Proprio in questo contesto la SIMG, Società Italiana di Medicina Generale e delle cure primarie, ha realizzato un report dal titolo “Sindrome del colon irritabile in assenza o presenza di costipazione: uno studio in medicina generale”. Ecco alcuni dei dati che emergono dallo studio.
Dati di prevalenza per sesso ed età
IBS. La prevalenza dell’IBS è del 3,5%, più elevata nel sesso femminile rispetto al maschile (4,49% contro il 2,45%) e senza particolari differenze per le fasce d’età, a eccezione della fascia di età inferiore e degli ultra 85enni. In particolare, i dati SIMG rilevano un picco tra i 45 e i 54 anni con un’incidenza maschile del 2,83% e una femminile del 5,25%. L’inferiore numero di casi nelle fasce d’età più giovani dipende da una presa in carico ancora parziale della popolazione adolescente da parte della medicina generale, mentre i grandi anziani sembrano incorrere meno nella patologia a causa della loro maggiore istituzionalizzazione che quindi può non essere più di competenza del medico di medicina generale. Questi dati sono in linea con quanto presente in letteratura, nonostante stime più recenti (11,5%) indichino un certo livello di sottostima della registrazione della diagnosi. Non è infatti da escludere, per questa tipologia di problema, il frequente ricorso diretto alle farmacie.
IBS-C. Per quanto concerne la prevalenza di IBS-C nella popolazione generale il dato è dello 0,07% con un andamento per sesso ed età simile a quello dell’IBS. In particolare i dati SIMG rilevano un picco per i maschi tra i 75 e gli 84 anni con un’incidenza dello 0,10% e per le donne tra i 65 e i 74 anni dello 0,16%. Il dato dell’IBS-C mostra che la costipazione è presente nel 2,07% dei pazienti con IBS relativamente al periodo 1998-2014.
Per un 5 per cento dei pazienti (circa 50 mila in Italia) i sintomi della sindrome del colon irritabile con costipazione (IBS-C) sono talmente gravi da risultare invalidanti e pericolosi per lo stato di salute generale. “Occorre più attenzione da parte dei medici di medicina generale. Le nuove molecole danno un sollievo importante da dolore e costipazione, ma non sono ancora dispensate dal Sistema sanitario nazionale”, puntualizza Enrico Stefano Corazziari, Professore Ordinario di Gastroenterologia presso La Sapienza-Università di Roma, che abbiamo intervistato.
Che tipologia di sintomi riportano questi pazienti definibili come gravi?
Sicuramente costipazione e un dolore addominale così forte da creare sofferenza e allarme. Non a caso si registrano numerosi accessi al pronto soccorso.
In questi casi, se non trattati, sono possibili complicanze?
Sicuramente. La ritenzione delle feci produce erosione della parete del colon, possibili ostruzioni con necessità di interventi chirurgici d’emergenza per rimuovere ostruzioni e curare perforazioni intestinali. Il rischio è tanto maggiore quanto è maggiore l’età del paziente, soprattutto se sono presenti altre patologie legate all’età come ipertensione, diabete e malattie cardiovascolari. In questi casi anche un’IBS-C meno grave diventa pericolosa se associata ad altre condizioni. Spesso, infatti, le terapie per patologie preesistenti possono avere un impatto negativo proprio sulla salute gastrointestinale.
Le conseguenze di un’IBS-C possono anche essere psicologiche. È corretto?
Sì. La patologia in genere insorge da bambini e questo spinge il soggetto sin da piccolo ad abituarsi alla malattia, spesso influenzando negativamente le sue relazioni sociali: l’insorgere del dolore è infatti imprevedibile. Ma l’isolamento può provocare depressione. Si dice spesso che questa patologia è psicosomatica: in realtà è più frequente che sia il corpo a influenzare la mente.
Nell’IBS-C c’è maggiore rischio di incorrere in patologie gravi, come il tumore al colon?
Fortunatamente no. Tuttavia, è una patologia che può confondere persino i medici e portare a diagnosi sbagliate. Ad esempio sappiamo che in questi pazienti c’è una maggiore incidenza di interventi chirurgici addominali inappropriati: nel ricercare la causa del dolore si sottopone il soggetto a interventi come la colecistectomia, l’isterectomia o l’appendicectomia. L’altro problema è che nell’IBS-C il paziente tende a convivere con la sintomatologia e quindi fa scarsa attenzione ai sintomi addominali. Così può capitare che, nel caso insorga una patologia importante come un tumore, il paziente tenda a ignorarne i primi sintomi ritardando la diagnosi.
Quanto passa mediamente dai primi sintomi alla diagnosi di IBS-C?
Dipende dall’esperienza del medico. Più è esperto, meno ha necessità di ricorrere a diagnosi per esclusione. Il primo step è la valutazione dei fattori di rischio per patologie gravi. A chi non ne ha, ma mostra i tipici segni dell’IBS-C, il medico dovrebbe limitarsi a prescrivere esami per escludere altre patologie: il test dell’intolleranza al lattosio, il test della celiachia e il dosaggio della calprotectina fecale per escludere una malattia infiammatoria cronica (morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa). Ai pazienti con più di 50 anni invece è comunque consigliata una colonscopia. Solo seguendo questi step si evitano costi inutili a carico del Sistema ed effetti iatrogeni prodotti da esami invasivi inappropriati.
Quanto conta, nella diagnosi, il ruolo del medico di medicina generale?
Moltissimo. Pensiamo che solo il 5 per cento dei pazienti con IBS-C si rivolge in prima battuta al gastroenterologo. Il medico di medicina generale dovrebbe quindi prestare grande attenzione ai sintomi del paziente, dedicandogli il tempo necessario. Inoltre il medico di base, a differenza del gastroenterologo, in genere conosce già il paziente e il suo stato di salute generale: questo dovrebbe aiutare.
Nell’IBS-C esiste un problema di automedicazione e di terapie inadeguate. Cosa comporta tutto ciò?
I principali sintomi dell’IBS-C sono stipsi e dolore addominale; tuttavia, i farmaci spesso prescritti dai medici stessi o scelti dal paziente in autonomia agiscono solo su uno dei due sintomi e tendono a peggiorare l’altro: un lassativo migliora la stipsi ma peggiore il dolore, un antispastico migliora il dolore ma peggiora la stipsi. L’alternativa fino a oggi era costituita dagli antidepressivi, con un’azione sul sistema nervoso centrale. Tuttavia, anche questi sembrano agire più sul dolore che sulla stipsi. Le nuove molecole oggi disponibili sembrano invece dare un sollievo importante su entrambi i versanti; tuttavia, hanno un costo a carico del paziente. In questo senso, e proprio per i pazienti più gravi, sarebbe importante che queste terapie fossero dispensate dal Sistema sanitario nazionale, magari su esclusiva prescrizione dello specialista.
da ilpuntosalute | 16 Gen, 2017 | Informazioni mediche
Negli ultimi anni lo scenario della sanità e dell’oncoematologia è cambiato in modo sostanziale. I mutamenti che si sono susseguiti sono dovuti alla riduzione delle risorse economiche dell’intero comparto sanitario e alla crescente disponibilità di nuovi farmaci e nuovi strumenti diagnostici più efficienti ma anche più costosi, che rendono più difficile al medico la gestione del paziente nel suo iter diagnostico-terapeutico globale.
Potrebbero essere di oltre 20 miliardi l’anno i risparmi nella spesa sanitaria nazionale se nei servizi sanitari si ricorresse in modo più diffuso al lean management (gestione snella), una modalità organizzativa e gestionale già applicata con successo nel settore dell’industria automobilistica (Toyota è stata la prima) e che ora comincia ad essere adottata con ottimi risultati in sanità, anche in ambito oncoematologico. Una pratica che si propone la riduzione degli sprechi di tempo e denaro e la massimizzazione del tempo dedicato al paziente. In pratica, si analizzano i processi di cura e si ottimizzano le singole attività che ne sono parte, riducendo tempi e attività superflue e concentrandosi, invece, su quelle che producono valore per il paziente.
Sono tutti elementi emersi nel corso del convegno, tenutosi a Roma all’Istituto Superiore di Sanità, sul tema Patologie oncoematologiche: evoluzione della terapia e del modello assistenziale.
Riflessioni e confronto sui bisogni del paziente sia in termini di modelli organizzativi assistenziali che di terapie innovative che permettano, da un lato, la gestione del paziente fuori dall’ospedale e, dall’altro, garantiscano un elevato profilo di efficacia, sicurezza e tollerabilità.
Le potenzialità e gli effetti concreti, economici e non, del lean management sono stati resi evidenti nel corso del convegno di Roma con la presentazione del caso dell’Azienda Ospedaliera Universitaria (AOU) di Siena che in diversi ambiti, tra cui quello oncoematologico, ha conseguito risparmi e recuperi di efficienza non indifferenti, reinvestiti in alta tecnologia e in iniziative a favore del paziente. Nel periodo compreso tra il 2012 e gennaio 2016, l’AOU senese ha registrato una soglia di risparmio di oltre tre milioni di euro. I proventi ottenuti da questi contenimenti sono periodicamente reinvestiti in iniziative a favore del paziente: una scelta importante, questa, visto che solo nel 2014 è stato raggiunto un risparmio, tra tutti i reparti, quantificabile in 600 mila euro, reinvestiti in alta tecnologia. “Tuttavia, l’aspetto economico per noi non ha rappresentato la prima priorità – spiega Giacomo Centini, Direttore Amministrativo AOU Senese –, ma la conseguenza di scelte destinate a migliorare l’esperienza del paziente e la qualità delle terapie. Abbiamo individuato una gerarchia di priorità: prima di tutto servire meglio il cliente, poi costruire un ambiente lavorativo positivo per gli operatori e solo in ultima battuta ridurre i costi minimizzando gli sprechi”.
Uno degli elementi caratterizzanti il lean management, oltre alla razionalizzazione dei processi, è il ricorso, ove possibile, alla deospedalizzazione e all’assistenza domiciliare: una pratica che tiene il paziente oncologico lontano da possibili luoghi di contagio oltre a consentirgli una migliore qualità della vita.
Il lean management costituisce ormai un elemento distintivo dell’Azienda ospedaliera senese. Dopo diverse esperienze all’estero Giacomo Centini, Direttore Amministrativo AOU Senese, ha portato in Italia la sua esperienza e una gestione che, nei Paesi del nord Europa, è di fatto una prassi. “In Svezia, ad esempio, da 15 anni il lean management è adottato dal sistema sanitario nazionale”, precisa. Di concerto con la Direzione sanitaria, è stato così avviato un percorso di innovazione di un’azienda sanitaria pubblica tra i più interessanti in Italia.
Concretamente, che cosa ha permesso questa gestione snella presso la vostra azienda sanitaria?
L’obiettivo è la riduzione degli sprechi di tempo e denaro e la massimizzazione del tempo dedicato al paziente. In pratica, si riducono tempi e attività superflue e ci si concentra invece su quelle che producono valore per il paziente. Ancora oggi nella maggior parte delle aziende sanitarie italiane il personale tende a essere focalizzato sull’erogazione dei servizi, ma poca attenzione è prestata alla percezione, da parte del paziente, della qualità del servizio stesso. In altre parole spesso si trascura un aspetto importante come il rapporto con il medico e l’esperienza del paziente all’interno dell’ospedale.
Come è stata applicata la logica lean, nella vostra azienda ospedaliera? È stato semplice?
Si è trattato di intraprendere un percorso in una logica di lungo periodo. I concetti lean sono semplici, l’importante è stimolare gli operatori ad applicarli a tutti i livelli supportando iniziative che vengano dal basso. Occorre quindi ascoltare e recepire le idee di miglioramento e snellimento delle attività proposte da tutti i livelli operativi, attività che poi possono confluire in una logica lean unitaria.
Lean management significa anche contenimento degli sprechi economici, ma non solo. Ci spiega meglio questo concetto?
L’aspetto economico per noi non ha rappresentato la prima priorità, ma la conseguenza di scelte destinate a migliorare l’esperienza del paziente e la qualità delle terapie. Abbiamo individuato una gerarchia di priorità: prima di tutto servire meglio il cliente, poi costruire un ambiente lavorativo positivo per gli operatori e solo in ultima battuta ridurre i costi minimizzando gli sprechi. In ogni caso i proventi ottenuti da questo contenimento sono periodicamente reinvestiti in iniziative a favore del paziente. Una scelta importante, questa, visto che solo nel 2014 abbiamo raggiunto un contenimento quantificabile in 600mila euro, reinvestiti in alta tecnologia.
Quali sono i settori coinvolti dal lean management?
«Siamo partiti dai punti di accesso principali, ovvero i settori attraverso i quali il paziente prende inizialmente contatto con l’ospedale: pronto soccorso, reparto di medicina e chirurgia. Ben presto la gestione lean ha però riguardato anche altri reparti e, tra questi, l’oncoematologia ha avuto un ruolo importante. In parallelo, sono stati attivati percorsi di formazione per i dipendenti, ormai giunti a coprire la quasi totalità del personale. Naturalmente siamo ancora in fase di sviluppo.
Il lean magament è un sistema applicabile a ogni struttura ospedaliera?
Sicuramente sì. Anzi, non è più un’opportunità ma una necessità viste le ristrettezze del sistema economico in cui ci troviamo».
Il paziente al centro è quindi il nodo chiave della gestione lean in sanità. Questo significa anche miglioramenti sul versante clinico? «Certamente. Oltre a generare contenimento degli sprechi, il lean management assicura anche maggiori livelli di sicurezza terapeutica, riducendo il rischio di eventi avversi dovuti a errori. Inoltre, eliminando attività non necessarie, libera risorse e assicura più tempo a disposizione per il rapporto medico-paziente.
Quanto è stato semplice applicare il lean management, nato nell’automotive, in un’azienda sanitaria?
Le difficoltà ci sono, soprattutto inizialmente: le resistenze al cambiamento sono inevitabili. Teniamo presente che è di per sé più facile applicare la metodologia lean nel privato piuttosto che nel pubblico, dove le novità sono spesso viste come una fatica da evitare. È stata fondamentale, quindi, la condivisione degli obiettivi grazie al ruolo dei lean champion nei vari reparti. Il punto è che bisogna superare gli ostacoli iniziali: dopo, la strada è in discesa. Certamente, sono i medici i più diffidenti. Tuttavia, quando si dimostra che oltre a ridurre tempi di attesa per il paziente il lean migliora notevolmente l’efficacia delle procedure cliniche, allora anche i medici accettano il cambiamento.
Ci può descrivere qualche attività lean già partita?
Dal 2012 patrociniamo un concorso interno per le migliori progettualità di lean management. Finora sono stati presentati oltre 110 progetti. Ad esempio, ne abbiamo avviato uno per la gestione in pronto soccorso del paziente ortopedico che ha permesso di ridurre a 40 minuti il tempo di permanenza in ospedale. Nella Stroke unit, invece, grazie a una gestione più snella, siamo scesi di 30 minuti sul door-to-needle, salvando miliardi di neuroni ai nostri pazienti. Miglioramenti anche in terapia intensiva, con una netta riduzione dei casi di infezione ospedaliera.
da ilpuntosalute | 9 Gen, 2017 | Informazioni mediche
Il punto di vista del Dermatologo.
Nella disciplina dermatologica si possono riscontrare alcune malattie che presentano un quadro infiammatorio di tipo cosiddetto immuno-mediato. Si tratta di affezioni ad andamento cronico, talvolta associate a disturbi di tipo reumatologico e/o gastroenterologico, che possono essere molto invalidanti e determinare una seria alterazione della qualità di vita dei pazienti che ne sono affetti.
Ciò che accomuna queste patologie è la presenza di uno stato infiammatorio cronico determinato da meccanismi di tipo immunologico che risultano alterati, ma la cui causa non è ancora ben chiarita.
La più frequente tra queste malattie con manifestazioni cutanee è certamente la psoriasi, ma in misura minore sono di riscontro dermatologico anche altre patologie, come l’eritema nodoso, il pioderma gangrenoso, la sindrome di Sweet e le afte a livello della mucosa orale. Tali affezioni sono infatti spesso accomunate da una serie di fattori patogenetici importanti, il cui meccanismo d’azione è comune alle stesse vie metaboliche, che presentano simili fattori precipitanti o aggravanti, come infezioni o traumi, e che sono sotto l’influenza degli stessi fattori genetici. La psoriasi è una dermatosi con una prevalenza del 2% sulla popolazione mondiale, e le sue molteplici manifestazioni cutanee, quali quella volgare, guttata, inversa, pustolosa, artropatica, ecc., possono talvolta essere molto estese sulla superficie cutanea. Ciò comporta un’influenza molto negativa sulla vita di relazione dei pazienti. Oggi è ormai noto inoltre che la malattia psoriasica implichi anche la presenza di una serie di comorbidità, ovvero l’insorgenza di malattie di altri distretti corporei che si influenzano vicendevolmente. Tali patologie che si associano più frequentemente sono l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito tipo II, le dislipidemie, l’obesità e un rischio più elevato di incidenti cerebrovascolari. Infine è necessario non dimenticare la possibilità d’insorgenza di un’eventuale depressione conseguente alla patologia cutanea, una maggiore tendenza all’alcolismo e alle dipendenze, come dimostrato dai diversi questionari di valutazione.
Anche per quanto riguarda il trattamento, ci sono elementi in comune tra le malattie infiammatorie immunomediate, che rispondono nella maggior parte positivamente alle terapie con i farmaci biologici di recente avvento. I farmaci biologici in molti casi hanno soppiantato le terapie tradizionali, che comportavano risultati generalmente modesti, e non cambiavano le prospettive di benessere dei pazienti, soprattutto nei casi più gravi e nel lungo termine. L’impiego dei farmaci biologici ha radicalmente modificato la gestione di tali malattie, consentendo di risolvere le condizioni e le complicanze cliniche più complesse e portando all’identificazione di nuovi traguardi terapeutici, volti a modificare la storia naturale di queste patologie.
La particolare complessità di tali affezioni, la notevole influenza delle une sulle altre, sia dal punto di vista clinico che patogenetico, la comparsa di effetti collaterali ai farmaci tradizionali e a quelli più innovativi e soprattutto l’urgenza e la necessità di incentrare sul paziente e non più solo sulla malattia l’approccio medico, hanno reso imprescindibile un’integrazione operativa molto stretta tra tutti i diversi specialisti coinvolti e a cui è affidata la cura di questi pazienti. L’utilizzo di tali molecole ha rimesso in gioco alcune considerazioni sull’effetto terapeutico e sugli eventi avversi nei due generi, uomo e donna.
Alcuni studi infatti suggeriscono differenze di genere rilevanti e relative all’essere ammalati di psoriasi. In una donna si evidenziano ancora una volta l’importanza della distinzione e dell’autostima. Nel considerare le novità a proposito di psoriasi e donna è opportuno ricordare che questo argomento si inserisce a pieno diritto nell’ambito della medicina di genere che distingue in campo medico in generale e quindi specialistico dermatologico. Le donne presentano un inizio di malattia più precoce e sono più colpite nell’infanzia e dopo la sesta decade. Le donne percepiscono una maggiore severità della patologia psoriasica rispetto agli uomini e pertanto l’impatto sintomatico risulta maggiore a parità dell’oggettività del quadro clinico della malattia.
Anche i questionari sulla qualità di vita somministrati ai soggetti di sesso femminile ne confermano l’evidenza, poiché le pazienti riferiscono di sentirsi meno attraenti e meno sicure di loro stesse e spesso si rifugiano nel cibo e nell’alcool. Inoltre subentra anche la paura che la patologia venga trasmessa ai figli.
È intuitivo che in queste persone risulti alterata anche la sfera sessuale, soprattutto a causa di un’elevata riduzione dell’autostima. Spesso al medico vengono richieste anche suggerimenti per nascondere la patologia soprattutto sul viso e sulle mani e a tal proposito è utile segnalare la possibilità di utilizzare prodotti dedicati, con azione coprente e correttiva (camouflage o maquillage correttivo).
In un recente studio brasiliano sono state analizzate le disfunzioni sessuali dei pazienti psoriasici in relazione alla distribuzione topografica delle lesioni cutanee. Esso ha evidenziato una correlazione positiva tra pattern distributivo della psoriasi nelle aree di interesse sessuale (regione genitale e addominale) e i sintomi di ansia e depressione.
Va considerato che nell’arco della vita ben il 38% dei pazienti può presentare la psoriasi a livello dell’area genitale e che questa può comportare sintomi talvolta molto gravi, come prurito, dolore e dispareunia (dolore vaginale durante l’atto sessuale), ridotta frequenza dei rapporti sessuali e peggioramento della patologia dopo di essi: la reazione depressiva e ansiosa risulta dunque essere una conseguenza molto spesso correlata a tali situazioni patologiche.
Per quanto riguarda la disfunzione erettile nell’uomo, sembra essere più frequente in quadri di psoriasi genitale lieve, ma quando si presenta in una psoriasi moderata o grave è spesso associata con depressione, ansia e abuso di nicotina.
In seguito a tali riscontri, negli ultimi anni i pazienti hanno cominciato a richiedere sempre di più allo specialista un’attenzione maggiore anche di tutti gli aspetti che riguardano la sfera sessuale e relazionale. Tale dato è infatti emerso dai numerosi studi che recentemente sono stati condotti sull’argomento. A tale proposito è stato elaborato un interessante strumento visivo, lo Psodisk, che il medico stesso compila insieme al paziente. Vengono assegnati punteggi da 1 a 10 a vari aspetti legati alla malattia, come per esempio lo stato di salute, il dolore, il prurito, la vita sociale e sessuale, il sonno, il lavoro, emozioni quali la vergogna, ecc. Tale pratica, oltre a favorire la comunicazione medico-paziente in questioni delicate, permette al medico di attuare un follow up nel tempo della situazione globale del paziente, mentre al paziente consente di avere un riscontro anche visivo del proprio stato di salute.
In generale si può affermare che le disfunzioni sessuali nella psoriasi aumentino con l’età, con la gravità della malattia e che siano un poco più frequenti nel sesso femminile. Inoltre esse sono più frequenti in presenza di artrite psoriasica, con il coinvolgimento delle regioni genitali e sono spesso accompagnate da alterazioni importanti dell’umore. Controverso è invece il ruolo giocato dalle comorbidità, ma è certo che l’avvento dell’uso dei farmaci biologici ha migliorato anche l’aspetto della funzione sessuale.
Dermatologhe Milano
Sabine Pabisch, Alessandra Maria Cantù
Corrinna Rigoni, Presidente dell’Associazione DDI (Donne Dermatologhe Italia)
Bibliografia:
“Body image among men and women in a biracial cohort: the CARDIA study” Smith DE et al.
Int J Eat Disord 1999
“Distribution pattern of psoriasis, anxiety and depression as possible causes of sexual dysfunction in patients with moderate to severe psoriasis” Molina-Leyva A, Almodovar-Real A, Carrascosa JC, Molina-Leyva I, Naranjo-Sintes R, Jimenez-Moleon JJ. An Bras Dermatol. 2015 May-Jun;90:338-45.
“Genital psoriasis is associated with significant impairment in quality of life and sexual functioning” Ryan C et al.J Am Acad Dermatol. 2015 Jun; 72:978-83
da ilpuntosalute | 2 Dic, 2016 | Informazioni mediche
La principale preoccupazione per i genitori di un bambino con diabete? La riduzione del livello di zuccheri nel sangue e le crisi di ipoglicemia. È questo il vero incubo per 7 genitori italiani su 10, secondo l’indagine internazionale DAWN Youth promossa da International Diabetes Federation (IDF) e International Society for Pediatric and Adolescent Diabetes (ISPAD), con il contributo di Novo Nordisk, e condotta su circa 7 mila bambini e ragazzi con diabete, sui loro genitori e sugli operatori sanitari.
Sono 18 mila, secondo i dati della Siedp, i bambini e gli adolescenti colpiti in Italia dal diabete tipo 1, la forma più grave della malattia che richiede la somministrazione dell’insulina, attraverso iniezioni da quattro a sei volte al giorno oppure l’impiego del microinfusore. Questi giovani sono assistiti da una rete di oltre 60 centri di diabetologia pediatrica, uniformemente distribuiti sul territorio nazionale. Nel complesso sono circa 300mila, per il Ministero della salute, gli Italiani, giovani e adulti, con diabete tipo 1.
“Il numero di giovani e bambini con diabete tipo 1 è in crescita, particolarmente nella fascia di età inferiore ai 6 anni. Soprattutto, esiste un’importante percentuale di giovani, circa il 30%, a cui la malattia viene diagnosticata solo quando si manifesta la chetoacidosi, una grave crisi dovuta all’impossibilità dell’organismo di utilizzare il glucosio come fonte energetica (per mancanza di insulina) che viene quindi sostituito con i grassi. Infatti, frequentemente i sintomi iniziali del diabete in un bambino sono spesso confusi con altre malattie”, dichiara Franco Cerutti, Presidente Siedp.
E proprio ai bambini tra i 3 e gli 8 anni con diabete tipo 1 è dedicata una nuova app, Pancry Life, ideata da AGDI Italia – Coordinamento tra le associazioni italiane giovani con diabete, patrocinata da SIEDP (Società Italiana di Endocrinologia e Diabetologia Pediatrica) e realizzata con il supporto non condizionato di Novo Nordisk. Pancry Life è la prima applicazione di tale genere progettata per iOS e Android (già disponibile per l’installazione su Apple Store e Google Play) e si pone a metà strada tra il gioco elettronico e lo strumento educativo.
Attraverso il gioco il bambino costruisce il proprio “avatar” e inizia l’avventura interattiva con l’aiuto di un simpatico personaggio parlante: Pancry, che lo aiuta e affianca in tutti i momenti cruciali del gioco, prettamente incentrato sull’esecuzione delle gestualità giornaliere atte a tenere sotto controllo e trattare il diabete. Ad esempio il bambino può imparare a gestire un episodio di ipoglicemia o iperglicemia a scuola o a scegliere i giusti alimenti ad una festa di compleanno senza incorrere in inconvenienti o a comportarsi in maniera corretta quando pratica attività fisica.
Pancry Life è stata sviluppata grazie alla consulenza medico-scientifica di Stefano Tumini, Responsabile Servizio di Diabetologia Pediatrica, Ospedale di Chieti.
“Mettono paura gli episodi di ipoglicemia, in particolare quelli notturni, nei propri figli preoccupi oltremodo i genitori non stupisce. Questo dato, che si riscontra in tutti i Paesi, deriva essenzialmente dalla paura delle conseguenze nell’immediato; dalle possibili manifestazioni della crisi ipoglicemica: palpitazioni, tremore, sino alle convulsioni e alla perdita di conoscenza, che in un bambino assumono caratteristiche ancora più drammatiche”, afferma Fortunato Lombardo, coordinatore del Gruppo di studio sul diabete della Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica (Siedp).
da ilpuntosalute | 18 Nov, 2016 | Informazioni mediche
Il dolore è un fenomeno fisiologico che funge da campanello d’allarme per segnalare al nostro organismo che qualcosa si sta danneggiando, o si è già guastata. Dopo tale sintomo si possono mettere in atto meccanismi di prevenzione o contenimento del danno. Quando il dolore diventa cronico, diventa patologico, porta a severe condizioni di disabilità e non permette un’attività sportiva costante, diventa un grande problema.
Il dolore si può distinguere in nocicettivo, infiammatorio acuto, infiammatorio cronico e neuropatico.
Il dolore nocicettivo è la risposta fisiologica a un evento lesivo, il dolore infiammatorio fa parte del meccanismo dell’infiammazione, in fase acuta è fisiologico se cronico rientra nella patologia come il dolore neuropatico associato ad alterazioni strutturali e dei rapporti tra i neuroni spinali e cerebrali.
È indubbio che oggi sono aumentati in modo naturale le patologie croniche di tipo doloroso: osteoartrite, fibromialgia, mal di schiena e di conseguenza l’uso di farmaci antidolorifici. Molti scienziati ritengono che questo sia in parte dovuto al cambiamento di alimentazione avvenuto recentemente e sbilanciato verso cibi di origine industriale. Ovviamente il problema è molto complesso e riguarda anche lo stile di vita, la sedentarietà, lo stress, l’inquinamento, l’abuso di farmaci, ma senz’altro l’alimentazione è un fattore sul quale tutti noi con un po’ di buona volontà possiamo intervenire.
Una corretta nutrizione è alla base di ogni processo fisiologico, cattive scelte alimentari apportano “tossine” che alterano i sistemi biologici dell’organismo e “veleni” che ritardano i processi di guarigione. Una corretta alimentazione, invece, apporta le sostanze necessarie per la guarigione spontanea del corpo e deve essere chiaro il concetto che la nutrizione per la sua influenza epigenetica è più importante della genetica.
Ci sono alcune regole fondamentali nell’ottica di un’alimentazione antidolorifica:
– non immettere veleni nel corpo, quali saccarina, aspartame e acidi grassi idrogenati;
– non assumere alimenti ricchi di zuccheri e le farine raffinate raffinati, e succhi di frutta;
– preoccuparsi di avere una buona funzionalità intestinale e una flora batterica salutare consumando più verdure ricche di fibre, cibi fermentati, limitando la carne rossa e assumendo integratori specifici.
Giuseppe Piccione,
laureato in scienze biologiche
dottorato di ricerca in chimica degli alimenti
esperto in qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana.
da ilpuntosalute | 15 Nov, 2016 | Informazioni mediche
La psicosi si manifesta con deliri e allucinazioni, comprendendo generalmente anche sintomi come il parlare in modo sconnesso, il comportamento disorganizzato e gravi distorsioni nella percezione della realtà. La psicosi può essere considerata quindi come un insieme di sintomi in cui è compromessa la capacità mentale di una persona, la sua risposta affettiva e la capacità di riconoscere la realtà, di comunicare e di relazionarsi con gli altri.
La schizofrenia è uno dei disturbi psichiatrici più complessi e meno compresi, ed è in genere definita come una condizione cronica e debilitante. Le persone che ne sono affette riescono a mantenere una buona condizione di equilibrio e benessere fisico e mentale, riescono a mantenere il loro lavoro e ad avere delle buone relazioni familiari e sociali. La manifestazione clinica della schizofrenia è abbastanza eterogenea, e comprende sintomi che vanno dalle allucinazioni, ai deliri, a discorsi e comportamenti sconnessi, all’apatia, alla mancanza di motivazione, ai deficit cognitivi.
Secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), sono circa 24 milioni le persone che nel mondo soffrono di schizofrenia a un qualunque livello. La malattia si manifesta in percentuali simili negli uomini e nelle donne. Nelle donne si osserva la tendenza a sviluppare la malattia in età più avanzata. In Italia sono circa 300 mila le persone che soffrono di questo disturbo. Coloro che si ammalano appartengono a tutte le classi sociali. Non si tratta, pertanto, di un disturbo causato dall’emarginazione o dal disagio sociale.
Uno degli aspetti problematici nella gestione della schizofrenia che emerge dalla survey “Addressing misconceptions in schizophrenia” riguarda proprio la gestione e l’adesione alla terapia; i pazienti infatti spesso non sono in grado di ricordarsi quando assumere la terapia e devono far riferimento ai caregiver (55%) o al personale sanitario (50%). Ancora esiguo (10%) il numero di pazienti che si avvalgono di device tecnologici.
“Nel momento in cui il paziente ha superato la fase di acuzie, di ‘emergenza psichiatrica’ – spiega Eugenio Aguglia, Presidente Società Italiana di Neuropsicofarmacologia (SINPF) – è consigliabile instaurare immediatamente una terapia long acting, con gli antipsicotici di II generazione, perché diventino la premessa per migliorare e accelerare molto il reinserimento lavorativo e quindi concretizzare la riabilitazione del paziente, non solo in termini sociali, ma socio-relazionali e riabilitativi”. Uno dei principali problemi della schizofrenia è la mancanza di consapevolezza della malattia da parte del paziente, la cui adesione al trattamento può essere facilitata nel caso di terapie con un LAI. In questo contesto, Janssen ha contribuito all’evoluzione dello scenario farmacologico attraverso numerose molecole antipsicotiche, di prima e di seconda generazione. In particolare, fin dal 2009 negli USA e dal 2012 in Italia, è disponibile per le persone affette da schizofrenia la formulazione mensile di un antipsicotico LAI (long-acting injectable) e dall’agosto del 2015 la Food and Drug Administration (FDA, ente regolatorio in USA) ha approvato il primo farmaco antipsicotico long-acting a formulazione trimestrale.
La terza dimensione, quella sociale con il reinserimento del paziente psicotico nella vita di tutti i giorni, prevede diverse attività con l’obiettivo finale di migliorare l’indipendenza e il benessere soggettivo del paziente e favorire l’integrazione nella società e le opportunità d’inserimento lavorativo. In questa dimensione gioca un ruolo importante l’attività fisica. “Negli ultimi anni si sono accumulati numerosi studi sul valore dell’esercizio fisico nelle persone affette da schizofrenia – dichiara Emilio Sacchetti, Past President della Società Italiana di Psichiatria (SIP), Professore Ordinario di Psichiatria e Direttore del Dipartimento Salute Mentale dell’ASST Spedali Civili di Brescia – i dati sono tanti e, direi, molto forti nel senso che le evidenze non lasciano dubbi sull’importanza degli effetti positivi e dei benefici che l’attività fisica, intesa non come sport competitivo bensì come esercizio regolare e costante, ha nel ridurre e migliorare i sintomi tipici delle psicosi, le performance cognitive e il benessere complessivo del paziente”.
Proprio per rispondere a queste esigenze, nei mesi scorsi è stato lanciato il progetto TRIATHLON, promosso da Janssen in partnership con Società Italiana di Psichiatria (SIP), Società Italiana di Psichiatria Biologica (SIPB), Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (SINPF), Fondazione Progetto ITACA Onlus, ONDA (Osservatorio Nazionale sulla salute della donna) e Federazione Italiana Triathlon (FITRI). Superare le criticità nel trattamento della psicosi e permettere un reale ritorno dei pazienti alla vita sono gli obiettivi dell’innovativo progetto “TRIATHLON – Indipendenza, Benessere, Integrazione nella Psicosi”. Si tratta di un programma innovativo per promuovere il recupero e il reinserimento dei pazienti attraverso un approccio integrato, basato sul coinvolgimento di tutte le figure chiave dell’assistenza, lungo tre dimensioni fondamentali – clinica, organizzativa e sociale – che da febbraio ad oggi ha già coinvolto numerosi DSM (Dipartimenti Salute Mentale) sul territorio.
Ora in Lombardia è in partenza proprio la “dimensione sociale” del progetto, con le attività organizzate con i trainer della FITRI (Federazione Italiana Triathlon), che guideranno i pazienti fino a culminare nel Primo campionato di Triathlon a squadre della salute mentale, ma non solo: c’è anche una novità che riguarda il reinserimento socio-lavorativo delle persone con psicosi, realizzata con il supporto di ONDA. “Uno dei problemi della malattia psichica è l’abbassamento dell’autostima da parte dei pazienti – spiega Francesca Merzagora, Presidente ONDA, Osservatorio Nazionale sulla salute della donna – proprio per supportare questo aspetto così vitale abbiamo pensato a una modalità innovativa per potenziare la dimensione sociale e il reinserimento socio-lavorativo dei pazienti: la dotazione di un patentino europeo del computer”.
L’iniziativa coinvolgerà nell’arco di un anno circa 100 pazienti in tutta Italia e 37 Dipartimenti di Salute Mentale, in quasi tutte le Regioni italiane. Alla fine del 2016 si saranno svolti 60 eventi formativi e altrettanti se ne terranno nel 2017.
Il progetto TRIATHLON in numeri:
- 37 Dipartimenti di Salute Mentale in tutta Italia
- più di 3.000 tra medici e operatori sanitari
- 3 società scientifiche
- 120 eventi formativi (ECM)
- 3 discipline sportive
- 2 tool digitali dedicati
- Il primo campionato di Triathlon a squadre della salute mentale
- 60 incontri con trainer sportivi certificati ed esperti sul corretto stile di vita
I primi risultati del progetto TRIATHLON a otto mesi dal suo lancio
Da febbraio a ottobre 2016 nell’ambito del progetto TRIATHLON sono stati effettuati già:
- 40 eventi formativi (ECM) in 15 Regioni italiane (Abruzzo, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana, Umbria e Veneto) che hanno visto il coinvolgimento di circa 500 fra medici e operatori sanitari;
- 4 corsi sportivi tenuti da trainer FITRI nelle Regioni di Sicilia, Marche, Abruzzo e Calabria, a cui hanno preso parte circa 250 pazienti;
- 100 pazienti coinvolti nei corsi per la patente europea del computer (ECDL).
In Lombardia sono stati già ospitati 11 incontri formativi ECM sui 28 totali previsti per la Regione, che hanno visto il coinvolgimento di ben 696 professionisti della salute suddivisi fra medici e operatori sanitari.
Gli incontri sportivi organizzati dalla FITRI partiranno dal 18 ottobre e riguarderanno 7 ASST delle province di Milano, Pavia, Bergamo, Rho, Monza e Mantova. Per ogni incontro è prevista la partecipazione di circa 60 pazienti (per un totale complessivo di circa 500 pazienti).
Inoltre per 14 pazienti stanno per partire i corsi per la patente europea del computer ECDL.
IL TRIATHLON
Il triathlon è uno sport nuovo e moderno, che raggruppa tre discipline (nuoto, ciclismo e corsa) da praticare in gara in un’unica prova, senza soluzione di continuità. I concorrenti devono infatti passare senza interruzioni da una frazione all’altra, dimostrando capacità di forza e resistenza. La sua nascita viene fatta risalire agli anni ‘70, nelle Hawaii, tra militari americani che (così si narra) a seguito di una scommessa, decisero di combinare le tre specialità in un’unica gara, quella che poi ha fatto la leggenda di questo sport, l’Ironman.
Da quel momento il triathlon si è diffuso in maniera esponenziale, soprattutto negli ultimi vent’anni. Praticanti, squadre, gare e Paesi che promuovono questa disciplina si sono moltiplicati, così come si sono diversificate le distanze, rendendo questo sport accessibile a chiunque e a ogni età. Il triathlon, infatti, secondo le distanze da percorrere, si suddivide in quattro tipi di competizione: Sprint (0,750 km nuoto, 20km bici, 5 km corsa), Olimpico (1,5 km nuoto, 40 km bici, 10 km corsa), Medio (2,5 km nuoto, 80 km bici, 20 km corsa) e Ironman (3,8 km nuoto, 180 km bici, 42 km corsa).
In Italia la prima gara sulla distanza olimpica si è svolta ad Ostia (Roma) nel 1984 e da lì è partita la storia della federazione italiana: la F.I.TRI (Federazione Italiana Triathlon), riconosciuta Federazione Sportiva Nazionale dal CONI con il debutto olimpico del triathlon nel 2000 a Sidney. Fanno parte della FITRI anche discipline derivate quali il duathlon (corsa e ciclismo), l’aquathlon (corsa e nuoto), il winter triathlon (corsa, ciclismo, sci da fondo) e il cross triathlon (nuoto, mountain biking, trail running).
Nel 2016 è divenuta anche Federazione Paralimpica ed ha fatto il suo debutto nelle Paralimpiadi di Rio conquistando la medaglia d’Argento con Michele Ferrarin e la medaglia di Bronzo con Giovanni Achenza.
Oggi in Italia ci sono oltre 22.000 tesserati e 426 società sportive e vengono disputate ogni anno oltre 450 gare con una media di circa 500 concorrenti, in grande maggioranza agonisti amatori. Un importante impulso alla diffusione di questo sport è stato fornito dai tesseramenti di giornata, introdotti 3 anni fa, che hanno permesso a tanti appassionati di provare la multidisciplina e condividerne valori e benefici. La prima volta di una tappa della World Cup in Italia nel maggio 2016 a Cagliari e il lancio del circuito Grand Prix dal 2014 sono stati senz’altro due tappe fondamentali per la visibilità e la crescita di questo sport in Italia.
Il Triathlon è lo sport del nuovo millennio e dell’uomo moderno che accetta le sfide, che fa e sa fare più cose sempre più varie, a stretto contatto con la natura.
L’attività federale è rivolta all’olimpismo, all’attività di alto livello, alla promozione sul territorio, giovanile, scolastica e alla formazione tecnica e amatoriale. Grande attenzione viene dedicata alla qualità dell’organizzazione degli eventi di profilo nazionale e internazionale in Italia.
Sito della Federazione Italiana Triathlon:
www.fitri.it
La FITRI è presente su facebook e twitter
da ilpuntosalute | 30 Set, 2016 | Informazioni mediche
Ansia, irritabilità, sbalzi d’umore, voglia di dolci, fatica, mal di testa, gonfiore, aumento di peso, dolore al seno, confusione, depressione, acne, pelle e capelli unti, insonnia, crampi, mal di schiena, nausea, vomito, dolori articolari, stipsi e cistiti. Questi sono alcuni dei sintomi che normalmente cominciano qualche giorno prima delle mestruazioni e che migliorano all’inizio del ciclo mestruale. Si tratta della sindrome premestruale (PMS), uno dei più comuni problemi di salute che affligge il 50%, circa, delle donne del mondo occidentale in età compresa tra i 18 e i 45 anni. Solo il 5% soffre, invece, di una sintomatologia così grave da impedire la normale vita quotidiana.
“Recentemente è stato messo in evidenza come la PMS sia legata a una carenza di progesterone o comunque a uno squilibrio tra progesterone ed estrogeni”, precisa Giuseppe Fabio Piccione, biologo e nutrizionista, esperto in qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana con dottorato di ricerca in chimica degli alimenti.
Per alleviare i fastidi della sindrome premestruale il Dottor Piccione consiglia alcuni semplici accorgimenti:
Attività fisica: vi sono varie ragioni per cui l’esercizio fisico allevia i sintomi dalla PMS. Il dolore alle caviglie, al seno, ai piedi e alla pancia è spesso dovuto alla ritenzione idrica. L’attività motoria, grazie all’azione di pompaggio dei muscoli, migliora il flusso di sangue e di liquidi negli organi congestionati, e riduce inoltre l’ansia e l’irritabilità perché è un modo sano e naturale per scaricare lo stress. Questo potrebbe essere dovuto alla produzione, da parte del cervello, di endorfine, sostanze che hanno effetto “oppiaceo” e antidolorifico. L’esercizio fisico, inoltre, ottimizza la postura e di conseguenza migliora la tensione muscolare a livello della schiena e del collo.
Alimentazione: sarebbe bene limitare, o meglio ancora , eliminare alcuni alimenti, tra questi i latticini (formaggi, burro), perché interferiscono con l’assorbimento di alcuni minerali importanti, come ad esempio il magnesio, che allevia i crampi. Inoltre il loro alto contenuto di sodio aumenta il gonfiore e la ritenzione idrica. L’alcol depleta l’organismo di alcune vitamine e minerali, è tossico per il fegato e può alterare la capacità di metabolizzare gli ormoni il che ha come conseguenza un livello di estrogeni più alto del normale. Carni grasse, insaccati e cibi salati, aumentando la quantità di grassi saturi, sodio ed estrogeni, favoriscono lo stato acuto della PMS.
Integrazione: durante le fasi acute si ricorre spesso a farmaci antidolorifici. Si è visto, però, che una corretta integrazione di vitamine (C, D, gruppo B) e sali minerali (magnesio e calcio) può ridurre notevolmente i disturbi creati dalla PMS.
da ilpuntosalute | 22 Ago, 2016 | Informazioni mediche
È rotondo, sottile, trasparente e di piccole dimensioni a garanzia della riservatezza nell’utilizzo per la donna. Può essere applicato alternativamente sull’esterno del braccio, sull’addome o sui glutei, utilizzando aree diverse a ogni applicazione. Si tratta di un Patch contraccettivo transdermico che viene utilizzato in cicli di 28 giorni e prevede un’applicazione settimanale per un periodo di 3 settimane, seguita da una settimana di sospensione del trattamento.
“È un nuovo contraccettivo ormonale combinato che si applica per via transdermica. Il patch contiene due componenti ormonali che vengono rilasciati in maniera costante: il GESTODENE (GSD) e l’ETINILESTRADIOLO (EE). Il GESTODENE è uno dei progestinici meglio conosciuti nel campo della contraccezione e ha la caratteristica di inibire l’ovulazione con dosi più basse rispetto a quelle di altri progestinici, consentendo di essere utilizzato a dosi minime. Anche L’ETINILESTRADIOLO, presente nel preparato, è a basso dosaggio – spiega Chiara Benedetto, Direttore SC Ginecologia e Ostetricia, Università degli Studi di Torino, AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, Presidio Ospedaliero Sant’Anna di Torino –. I 13 microgrammi di ETINILESTRADIOLO rilasciati nelle 24 ore corrispondono a quelli assorbiti con una dose orale di 20 microgrammi. Il patch ha quindi la caratteristica di garantire un ottimo controllo del ciclo e di assicurare un’elevata efficacia contraccettiva pur rilasciando quantità di ormoni molto basse”.
Presenta un elevato livello di adesione sulla pelle, cioè tale da non compromettere l’efficacia contraccettiva, indipendentemente dalle aree di applicazione e anche durante l’esercizio fisico, lo sport, la sauna, l’idromassaggio. L’utilizzo raccomandato del patch sulla pelle pulita, asciutta, non irritata o danneggiata da ferite e priva di peli, e la corretta applicazione con una leggera pressione (30 secondi) per far aderire i bordi del cerotto, assicurano l’elevato livello di adesione sulla pelle. È composto da una matrice multistrato (5 strati), tra cui uno strato adesivo specifico che assorbe i raggi UV, garantendo la sicurezza e l’efficacia contraccettiva anche con l’esposizione al sole.
“Il patch contiene estrogeni e progesterone, come la pillola: cambia la via di somministrazione ma non l’effetto – precisa Francesca Manganello, specialista in Ginecologia e Ostetricia –. Anzi: l’assorbimento costante attraverso la cute evita picchi di concentrazione ormonale legati al metabolismo garantendo la sicurezza contraccettiva. Rassicuriamo senz’altro le donne sul fatto che il patch non si stacca: basta applicarlo correttamente, sulla pelle pulita e asciutta, premendo per 30 secondi per garantire l’aderenza. Poi, si possono trascorrere anche intere giornate in piscina o al mare senza alcun rischio. È utile infine ricordare, per chi soffre di intolleranze alimentari, che il patch è privo di lattosio e glutine”.
A spiegare i vantaggi e le controindicazioni ci viene in aiuto la professoressa Chiara Benedetto.
Quali sono i benefici a lungo termine accertati per la salute e per la fertilità utilizzando la contraccezione ormonale?
La contraccezione ormonale presenta molteplici benefici extra contraccettivi: come già detto, riduce la mortalità generale e in particolare la mortalità per patologie tumorali e cardiovascolari; diminuisce la dismenorrea, ovvero il dolore durante la mestruazione e la quantità di sangue perso durante il flusso mestruale. Può quindi essere utile in donne con cicli mestruali tanto dolorosi e abbondanti da alterarne la qualità di vita. Presenta effetti benefici sulla sindrome premestruale, ossia quell’insieme di disturbi che compaiono prima del flusso mestruale, quali stanchezza, alterazioni dell’umore, irritabilità, cefalea, ritenzione idrica, alterazioni del sonno e dell’appetito. Alcuni tipi di contraccettivi ormonali sono anche in grado di ridurre acne e peluria e quindi possono essere utili in ragazze giovani con problemi di ovaio policistico. Inoltre la contraccezione ormonale riduce il rischio di endometriosi e di sviluppo di cisti ovariche e tende a ritardare l’età di insorgenza della menopausa.
Quali sono, invece, le reali controindicazioni all’uso del patch?
Le reali controindicazioni all’utilizzo del patch sono le stesse di tutti gli altri contraccettivi contenenti estroprogestinici e sono rappresentate dalla presenza dei seguenti fattori di rischio: predisposizione alle tromboembolie arteriose e venose, come in caso di trombofilie congenite o acquisite; ipertensione arteriosa non controllata dalla terapia medica; malattie cerebrovascolari; diabete mellito scompensato e con complicanze nefrologiche, vascolari o neuropatiche; emicrania con aura.
da ilpuntosalute | 6 Lug, 2016 | Informazioni mediche
Uno studio svedese su 30 mila donne conferma che l’esposizione al sole regala fino a 2 anni in più, inoltre fa bene a ossa e cuore. Questi i risultati di un imponente studio prospettico svedese, recentemente pubblicato sulla rivista Journal of Internal Medicine. L’estate è già iniziata e per molti anche le vacanze. Dai dermatologi italiani alcune chiare indicazioni, in base agli ultimi studi scientifici, sui potenziali benefici del sole, ma anche preziosi consigli per non abusarne.
“Lo studio iniziato nel 1990 ha coinvolto circa 30 mila donne svedesi di età compresa tra i 25 e i 64 anni – spiega il Professor Girolomoni, Direttore della Dermatologia di Verona e presidente Società Italiana di Dermatologia – ed ha dimostrato in modo chiaro che evitare il sole fa male. Le donne che si espongono al sole, infatti, hanno un rischio minore di eventi cardiovascolari (infarto, ictus) e sopravvivono più a lungo, 0.6-2.1 anni in più per la precisione. Non solo, esporsi al sole compensa gli effetti dannosi del fumo di sigaretta. Il fatto che esporsi al sole fa bene è senz’altro da mettere in rapporto con il fatto che la pelle esposta al sole produce maggiori quantità di vitamina D”.
Ma la vitamina D non è l’unica sostanza benefica prodotta dalla pelle dopo esposizione al sole. Le cellule della pelle producono beta endorfine che sono responsabili del senso di piacere e appagamento e forse pure della dipendenza che diverse persone provano nell’esporsi al sole o ai raggi ultravioletti artificiali. La pelle stimolata dal sole rilascia pure ossido nitrico che è in grado di abbassare la pressione arteriosa e in effetti le persone con ipertensione moderata che si espongono ai raggi ultravioletti migliorano la loro ipertensione.
L’altro lato della medaglia è che l’esposizione eccessiva al sole favorisce l’invecchiamento cutaneo e lo sviluppo di tumori della cute come epiteliomi o melanomi.
Quindi come comportarsi? “Tutto dipende dalle caratteristiche della propria pelle – spiega Girolomoni – gli individui di carnagione scura che non si scottano al sole possono esporsi tranquillamente senza problemi. Gli individui di carnagione chiara che si scottano facilmente devono fare più attenzione, esponendosi con cautela”.
Come bilanciare questi due opposti fenomeni?
Capita spesso nella vita di doversi bilanciare tra effetti opposti. Un esempio per tutti il cibo. Troppo fa male, ma poco fa peggio. “Nel caso della esposizione al sole esiste una soluzione. Infatti gran parte degli effetti benefici del sole dipendono dalla produzione di vitamina D nella pelle. Quindi basta assicurarsi che i livelli di vitamina D nel sangue siano nella norma. Se sono troppo bassi bisogna assumere vitamina D3. La vitamina D, oltre al ruolo principale di preservare la mineralizzazione dell’osso, e prevenire l’osteoporosi, esercita anche funzioni extra-scheletriche inclusa quella di regolare le risposte immunitarie, proteggere dalle infezioni e ridurre il rischio cardiovascolare. Esistono a questo proposito numerosi studi che confermano che la carenza di vitamina D è inversamente correlata con la mortalità per eventi cardiovascolari e per cancro, e che la assunzione di vitamina D3 riduce globalmente la mortalità”.
Ecco cinque semplici suggerimenti, da tenere a mente:
1) Evitare le ore di massima irradiazione, tra le 11 e le 14, ed esporsi al sole in modo graduale, dando la possibilità alla pelle di difendersi attraverso l’abbronzatura, ed usare creme protettive adeguate.
2) Soprattutto nei bambini è fondamentale evitare le ustioni solari, che costituiscono il principale fattore di rischio per il melanoma. Il melanoma insorge a distanza di decenni dalle ustioni solari.
3) Usare creme solari con fattore di protezione superiore a 30, meglio se 50, rinnovando l’applicazione dopo 2 ore o anche prima se si fanno bagni. Usarle in quantità adeguata. Anche le creme a cosiddetta protezione totale, in realtà proteggono solo parzialmente.
4) Ricordarsi che le creme solari non servono per stare più a lungo al sole, ma per starci in modo più corretto. Anche le magliette colorate possono costituire un ottimo filtro solare.
5) Considerare con il proprio medico l’assunzione regolare di vitamina D, soprattutto nei mesi autunnali e invernali.
Per maggiori informazioni: http://www.sidemast.org/
da ilpuntosalute | 1 Lug, 2016 | Informazioni mediche
Il carcinoma polmonare è la neoplasia più diffusa nel mondo. In Italia sono 41 mila ogni anno le nuove diagnosi. Le terapie a bersaglio molecolare, tarate sul tipo di tumore, rappresentano la frontiera più avanzata in fatto di trattamenti, miglioramento della sopravvivenza e della qualità di vita.
Da oggi, i pazienti con adenocarcinoma polmonare non a piccole cellule con mutazione EGFR in terapia con farmaci biologici possono usufruire di un canale digitale diretto per mettersi in contatto con il medico e aggiornarlo sulla gestione della terapia: a offrirlo, l’innovativo servizio IPM (Improving Patient Management). Un contatto semplice e immediato per segnalare al medico gli effetti collaterali.
Un’app e una piattaforma sul web per creare un filo diretto tra medico e paziente; una serie di domande pre-impostate per facilitare la descrizione del problema; la possibilità di segnalare in tempo reale al medico gli eventi avversi e i problemi di adesione alla terapia. La piattaforma IPM consiste in un sistema multicanale, con un’app disponibile per i dispositivi mobili iOS e Android, smartphone e tablet, scaricabile da App Store e Google Play, e una piattaforma online sempre accessibile da web browser. Gli obiettivi del servizio sono rivolti a migliorare la qualità di vita del paziente attraverso una rapida gestione degli eventi avversi e l’aderenza ai trattamenti con la precoce e tempestiva segnalazione e gestione delle tossicità da inibitori delle tirosinchinasi.
Le terapie biologiche a somministrazione orale hanno rivoluzionato in modo radicale la sopravvivenza, la qualità di vita e lo stesso modo di curare i pazienti. I farmaci biologici colpiscono in modo mirato il bersaglio molecolare bloccando, nel caso dell’adenocarcinoma non a piccole cellule con mutazione EGFR, il fattore di crescita attraverso la tirosinchinasi, portando ad un aumento della sopravvivenza in questo sottogruppo di pazienti. Questi farmaci possono essere ritirati presso il Centro di cura e assunti a domicilio dal paziente e questo vantaggio, diradando la frequenza dei contatti con lo specialista, potrebbe rappresentare un problema dal punto di vista del monitoraggio degli effetti collaterali con tutti i rischi connessi, dall’interruzione arbitraria delle terapie al peggioramento della qualità di vita. Ed è qui che arriva in aiuto la tecnologia.
“Mentre nell’era della chemioterapia questi pazienti erano sottoposti a controlli piuttosto frequenti, con le terapie orali gli accessi in ospedale si riducono questo comporta che la segnalazione degli eventi avversi non sia adeguata e di conseguenza la gravità della tossicità legata ai farmaci inibitori delle tirosinchinasi (EGFR-TKI) orali può essere trascurata – dichiara Filippo de Marinis, Direttore dell’Oncologia Toracica all’IRCCS Istituto Europeo di Oncologia di Milano –. La possibilità di avere a disposizione un sistema applicativo, da utilizzare in modo semplice con uno smartphone o dal computer, è vantaggioso per il paziente e per il medico. È sufficiente che il paziente invii un messaggio e una foto per avere un consulto e un intervento efficace”.
Il tumore al polmone
I polmoni sono due organi simmetrici, spugnosi, posti nel torace. La loro funzione è quella di trasferire l’ossigeno respirato al circolo sanguigno e depurarlo dell’anidride carbonica prodotta dall’organismo.
Il tumore del polmone compromette questa funzione in quanto provoca una crescita incontrollata di determinate cellule (quelle che costituiscono bronchi, bronchioli e alveoli) che possono costituire una massa che ostruisce il corretto flusso dell’aria, oppure provocare emorragie polmonari o bronchiali.
Non esiste un solo tipo di tumore del polmone bensì diverse tipologie di malattia a seconda del tipo di cellula da cui originano.
I bronchi, i bronchioli e gli alveoli polmonari sono ricoperti da un sottile strato di tessuto detto epitelio. Il 95% dei tumori al polmone origina proprio dall’epitelio e viene chiamato carcinoma broncògeno (ovvero originato dai bronchi). Nel restante 5% dei casi l’origine può essere a livello di tessuti diversi che compongono il polmone, per esempio i tessuti nervoso ed endocrino (in questo caso si parla di carcinoide polmonare di origine neuroendocrina) o linfatico (in questo caso si tratta di un linfoma polmonare).
Le diverse forme di tumore al polmone
Le due forme principali sono il carcinoma polmonare a piccole cellule (SCLC) e il carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC). La forma più comune è quella non a piccole cellule che rappresenta circa l’85% dei casi di tumore al polmone.
Tra i tumori non a piccole cellule (NSCLC) troviamo:
- il carcinoma spinocellulare (detto anche squamocellulare) che rappresenta il 25-30% dei tumori broncògeni e nasce nelle vie aeree di medio-grosso calibro. Spesso è localizzato al centro del polmone in una delle principali vie respiratorie (il bronco sinistro o destro). È provocato dalla trasformazione neoplastica dell’epitelio bronchiale; molto spesso insorge in zone sottoposte cronicamente a radiazioni solari;
- l’adenocarcinoma, che si presenta in circa il 30% dei casi e si localizza in sede più periferica, cioè a livello dei bronchi di calibro minore. È il tumore polmonare più frequente tra chi non ha mai fumato e talvolta è dovuto alla presenza di cicatrici polmonari (per esempio per vecchie infezioni tubercolari o per pleuriti). Si sviluppa da un particolare tipo di cellula che produce il muco (catarro), che riveste le vie aeree. Un sottotipo è rappresentato dall’adenocarcinoma bronchioloalveolare che deriva dalle cellule che tappezzano gli alveoli e che tende a diffondersi lungo le vie aeree. L’adenocarcinoma è la forma più comune di cancro del polmone NSCLC;
- il carcinoma a grandi cellule, meno frequente dei precedenti (10-15% dei casi), che deriva anch’esso dalle vie aeree più piccole. Le cellule appaiono grandi e rotonde se analizzate con un microscopio e i tumori tendono ad essere più grandi di 2,5-4 centimetri.
Fattori di rischio
- Il fumo è associato con l’80% dei casi di tumore al polmone.
- Per quanto riguarda il fumo passivo, vi è un aumento del 20% della probabilità di sviluppare il tumore al polmone nei coniugi di fumatori.
- Episodi in famiglia di tumore al polmone.
- L’esposizione ad amianto e al gas radon.
- L’inquinamento atmosferico urbano e domestico (in particolare nelle case poco ventilate in cui vengono regolarmente bruciati i combustibili del carbone, del legno o di altri solidi) sono stati collegati con un aumento di rischio di tumore al polmone.
I sintomi
I sintomi più comuni del tumore al polmone non sempre si manifestano con chiarezza e possono essere comuni ad altre malattie. Ciò significa che i sintomi sono a volte trascurati, e questo è uno dei motivi per i quali molti pazienti si recano dal medico solo nella fase avanzata della malattia. Tuttavia, i sintomi più comuni del cancro al polmone sono:
- Mancanza di respiro e/o affanno.
- Tosse cronica e/o ripetuti attacchi di bronchite.
- Raucedine della voce, dolore toracico.
- Perdita di peso e di appetito senza una ragione apparente.
I farmaci biologici
I farmaci biologici rappresentano oggi la frontiera più avanzata nello sviluppo di terapie personalizzate contro patologie gravi come i tumori. Questi farmaci vengono studiati a tavolino dai ricercatori e tarati in base alle esigenze del paziente. Si tratta di farmaci creati con tecniche di ingegneria genetica, integrando scienze naturali e scienze ingegneristiche.
Non più un composto generico ma un farmaco “target”, che mira a colpire una determinata molecola ed opera solo in una precisa zona dell’organismo: i vantaggi rispetto alle cure tradizionali sono notevoli perché aumentano l’efficacia della terapia e riducono, nel contempo, gli effetti indesiderati.
I farmaci biologici sono prodotti a partire da anticorpi o proteine presenti nell’organismo umano che vengono modificate in laboratorio. Di solito si tratta di “riprogrammare” anticorpi (ma non soltanto) in modo tale da renderli attivi soltanto su un determinato bersaglio. L’obiettivo è quello di raggiungere le cellule o le strutture malate, agendo direttamente su queste senza danneggiare le cellule sane. Per ottenere tale traguardo si è pensato di usare le difese del nostro organismo, e cioè gli anticorpi, modificandoli in modo tale da renderli capaci di riconoscere come aggressori le strutture malate (cellule tumorali) o le proteine coinvolte nel processo patologico.
Il farmaco risulta quindi meno aggressivo, meno tossico di quelli sintetici, e più facile da sopportare per il paziente. Sono indispensabili quando il paziente non trova giovamento nelle terapie tradizionali o non può ricorrervi e permettono al paziente di vivere in modo attivo nella società.
Dal momento che le terapie biologiche agiscono in maniera selettiva sui processi di crescita del tumore, possono essere potenzialmente più efficaci di altri tipi di trattamento (come la chemioterapia e radioterapia) e meno tossiche per le cellule sane. Esistono diversi tipi di terapia biologica per il trattamento del carcinoma polmonare non a piccole cellule. Nelle diverse fasi della malattia, queste possono essere somministrate in monoterapia o in combinazione con altre terapie.
da ilpuntosalute | 14 Giu, 2016 | Informazioni mediche
Il tono della voce è pacato. Le frasi che pronuncia fanno riflettere. Sentirla parlare dona un senso di serenità. Lei è Barbara Fabbroni, psicologa, psicoterapeuta, analista Transazionale. Ha insegnato nella Scuola di Specializzazione post laurea a indirizzo Analitico Transazionale Centro Logos. Svolge la sua attività per bambini, coppie e adulti in individuale e di gruppo. Ha scritto numerosi saggi e articoli scientifici.
Da anni affianca alla pratica clinica la scrittura. Nel 2015 pubblica il suo primo romanzo rosa: L’Amore, forse.
“Una mia paziente, concluso il percorso di terapia, mi porta un regalo. Con sorpresa vedo che è un romanzo. Curiosa, scopro che la protagonista le somiglia tantissimo. Così comprendo che la narrativa rosa può essere un crocevia importante per uscire fuori da esperienze di dolore. È un po’ come dar vita a una possibilità ulteriore – racconta Barbara Fabbroni –. Per questo ho deciso di scrivere un libro che non è un romanzo autobiografico né l’esperienza di una mia paziente. È semplicemente la storia di una donna con l’immenso bisogno di essere amata e di amare, di credere nell’amore e di viverlo nel suo quotidiano”.
Barbara Fabbroni insegna ad amare e ad amarsi. Amare e amarsi, imparare ad allenare il proprio cuore per conoscersi nel profondo per molti non è affatto semplice. Richiede sforzi, tenacia e una notevole consapevolezza di sé. Spesso l’impresa sembra troppo ardua per una persona sola. Ecco allora che scende in campo il Love coach, l’allenatore del cuore.
In Love coach, il suo nuovo romanzo, Barbara Fabbroni affronta il tema difficile dell’amore attraverso la figura del Love Coach. Una figura particolare e al tempo stesso entusiasmante. Non un guru ma un esperto di sentimenti e comportamenti. Il Love Coach offre sostegno alle persone in difficoltà aiutandole a comprendere fino in fondo quali siano le loro risorse, portandole a scoprire se stesse in modo da migliorare in maniera significativa ed evidente le proprie relazioni e la propria vita sentimentale.
Il Love coach, ci mostra l’autrice, aiuta a superare una relazione finita o lo scarso successo in amore, insegna come gestire le emozioni e come comunicarle agli altri, interviene per cercare di risolvere i problemi di coppia ma, soprattutto, insegna alle persone ad amarsi e quindi ad amare. Non ci si rivolge al Love coach solo per un amore finito o in crisi ma anche per migliorare il rapporto con se stessi, per diventare più consapevoli dei propri punti di forza e di debolezza, delle proprie fragilità e delle proprie aspirazioni.
Il Love coach, ci dice Barbara Fabbroni nel suo romanzo, non è un terapeuta ma un aiuto concreto per riuscire a sviluppare le proprie potenzialità, soprattutto nel campo dei sentimenti, insegna a superare il disagio con un atteggiamento più consapevole, e aiuta a migliorare l’autostima. Perché solo amandosi si può amare davvero.
Barbara Fabbroni è psicologa, psicoterapeuta, analista Transazionale Clinico. Ha insegnato nella Scuola di Specializzazione post laurea a indirizzo Analitico Transazionale Centro Logos. Svolge la sua attività terapeutica con bambini, coppie e adulti, in individuale e di gruppo.
Ha scritto numerosi saggi e articoli scientifici.
Pubblica con la Casa Editrice EUR (Roma). Tra i suoi saggi: Amore e Dualità: psicopatologia della coppia e Vittima-Persecutore: il mondo dello Stalker.
Nel 2011, per la EUR, dirige la Collana: “Nel cuore dei bambini” di cui fanno parte alcuni suoi saggi, tra i quali: I bambini e la Rabbia; I bambini e la Paura. Nello stesso anno e per la stessa casa editrice pubblica anche delle fiabe terapeutiche: Piccolina e Volavola; Babina la bambina birichina.
Nel 2012, insieme a Maurizio Martucci, sempre per la EUR, fonda la Collana “Analisi Transazionale” per cui pubblica, tra l’altro: Solitudine. Il bambino smarrito, con il quale vince, nel 2013, il Premio Cesare Pavese per la saggistica e che è finalista al Premio Carver 2013.
Nel 2014 vince il Premio Tagete per la saggistica con Stati dell’Io Fetali, finalista al Premio Nabokov 2014.
Nel 2015 pubblica il suo primo romanzo: L’Amore, forse.
Nel 2016 assume l’incarico di direttrice per le Edizioni Pink. Dopo il successo del suo primo romanzo L’amore, forse, Barbara Fabbroni si prenderà cura delle pubblicazioni che promuovono e incoraggiano la narrativa e la poesia “rosa” della casa editrice.
Le Edizioni Pink sono un prodotto al femminile, dove le protagoniste sono donne in tutte le declinazioni e le esperienze che la vita può proporre nel suo percorso. Quella promossa dalla collana è una letteratura facile ma al tempo stesso intelligente, profonda e intrisa di significati.
da ilpuntosalute | 7 Giu, 2016 | Informazioni mediche
Nonostante l’aspettativa di vita sia aumentata, l’età in cui sopraggiunge la menopausa naturale non è cambiata significativamente negli ultimi anni. Oggi una donna trascorre circa 30 anni, ovvero quasi un terzo della sua vita, in post-menopausa. Molte donne considerano questa tappa come la manifestazione concreta dell’invecchiamento, altre come l’inizio di una nuova epoca della loro esistenza: in ogni caso le donne in menopausa rappresentano oggi il gruppo sociale più numeroso anche in considerazione della maggiore longevità femminile.
Diversi e personali i vissuti e i bisogni nell’esperienza della menopausa fra le donne italiane: molto variabile la percezione dei sintomi e la capacità di affrontare questo delicato “passaggio” della vita di una donna.
Ogni donna la vive la menopausa in modo diverso,quattro le grandi tipologie di donne: chi vive e accetta la menopausa con serenità (le “Serene”), e a fronte di sintomi percepiti come non così disturbanti tende ad aspettare che si risolvano da soli; chi si rassegna a un evento inesorabile (le “Rassegnate”) che influisce fortemente sulla percezione di sé e sulla qualità della vita, ma accetta passivamente anche sintomi e disturbi molto fastidiosi; chi vive nella nostalgia dell’adolescenza (le “EterneRagazze”) e vive con paura questa fase della vita, segnale dell’invecchiamento e della perdita della femminilità e della bellezza (“l’inizio della fine” del proprio essere donna) e vivendo con difficoltà anche i piccoli sintomi e intervenendo precocemente per gestirli; chi, infine, combatte (le “Performanti”) contro un fastidio che interferisce in modo importante con la propria vita e le proprie attività e cerca attivamente soluzioni per risolvere e recuperare la performance abituale.
Molteplici e particolarmente rilevanti i sintomi che interferiscono con tutte le dimensioni del vivere: le vampate di calore (55% delle donne ne soffre ed è il sintomo più fastidioso) che mettono in difficoltà nelle relazioni sociali, l’aumento di peso (ne ha esperienza il 40%) che influisce sull’immagine di sé e sulla propria femminilità, l’impatto sul sonno (31%), gli effetti negativi sull’umore (23%), le problematiche legate alla sessualità (secchezza vaginale 29%, calo del desiderio 29%, difficoltà nei rapporti sessuali 11%).
Le over 50 sono dunqueaccomunate dal timore per i sintomi della menopausa, che possono compromettere la qualità della vita a breve, medio e lungo termine. A dirlo è la ricerca “Le donne e la menopausa” condotta da GfK Italia i cui risultati sono stati presentati in occasione del 17° World Congress della Società Internazionale di Ginecologia Endocrinologica – ISGE.
Uno dei maggiori fattori che riducono la compliance all’utilizzo della Terapia Ormonale Sostitutiva è rappresentato dall’intolleranza al progestinico. Adesso, per le donne per le quali la terapia contenente progestinico non è appropriata arriva in Italia un nuovo farmaco a base di una combinazione di estrogeni coniugati e bazedoxifene, il primo di una classe di farmaci, la TSEC, TissueSelectiveEstrogenComplex o Complesso Estrogenico Tessuto-Selettivo, in grado di contrastare in modo efficace i più fastidiosi sintomi menopausali: vampate di calore, sudorazioni notturne e qualità del sonno. Problemi che, secondo l’indagine, compromettono il benessere fisico ma anche la sfera sessuale e la vita di relazione.
Il farmaco è un’associazione tra un modulatore selettivo del recettore degli estrogeni (SERM), il bazedoxifene, ed estrogeni naturali. Il vantaggio è duplice: con gli estrogeni il farmaco mantiene i benefici della terapia ormonale e con bazedoxifene riduce il rischio di iperplasia endometriale.
“Si tratta di un’importante innovazione terapeutica efficace nel contrastare i sintomi correlati alla carenza di estrogeni, indicata per le donne con utero per le quali la terapia progestinica non è appropriata – afferma Andrea Riccardo Genazzani, Professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia dell’Università degli Studi di Pisa e Presidente ISGE (International Society of GynecologicalEndocrinology) -. Si tratta di una combinazione di estrogeni coniugati e bazedoxifene. Quindi una terapia ormonale senza progestinico. Gli estrogeni coniugati rimpiazzano la mancata produzione estrogenica nelle donne in menopausa e alleviano i sintomi menopausali. Poiché gli estrogeni promuovono la crescita dell’endometrio, i loro effetti, se non contrastati, aumentano il rischio di iperplasia e cancro dell’endometrio.Da qui la necessità dell’aggiunta di bazedoxifene, che agisce come antagonista del recettore degli estrogeni nell’utero, riducendo notevolmente il rischio indotto dagli estrogeni di iperplasia endometriale in donne non isterectomizzate. Infatti, il bazedoxifene è un modulatore selettivo del recettore degli estrogeni che, a seconda dei tessuti nei quali tali recettori sono espressi, può o agire da antagonista dei recettori (effetti inibenti), come nel tessuto mammario ed endometriale, o agire da agonista su altri tessuti, con un effetto stimolante sui recettori)”.
Da tempo viene utilizzata la Terapia Ormonale Sostitutiva (TOS) a base di estrogeni e progestinici per tenere sotto controllo e mitigare gli effetti menopausali. Tuttavia il suo profilo di sicurezza e la tollerabilità sono ancora in discussione e secondo quanto emerge dalla ricerca, i motivi per cui non viene usata sono principalmente due: alcune donne non vogliono assumere ormoni e sono contrarie all’utilizzo di farmaci per i sintomi della menopausa, considerata un evento naturale che deve essere accettato.
COS’È LA MENOPAUSA?
La menopausa è l’assenza permanente delle mestruazioni legata alla mancata produzione di ormoni da parte delle ovaie. Viene dichiarata dopo 12 mesi consecutivi dall’ultima mestruazione non imputabili a nessun’altra evidente causa patologica o fisiologica. Nei 5-8 anni che precedono la menopausa il patrimonio follicolare si esaurisce e l’ovaio subisce un lento declino, divenendo sempre più piccolo e atrofico.
La menopausa può essere naturale, o fisiologica, e artificiale, indotta da qualsiasi evento che porta a distruzione il tessuto ovarico (interventi chirurgici, chemioterapia, malattie endocrine). La menopausa fisiologica si presenta intorno ai 50 anni con un intervallo di normalità tra i 45 e i 57 anni. Nei paesi occidentali la menopausa arriva in media attorno ai 51 anni. Fattori ereditari, etnici, comportamentali, pubertà tardiva, gravidanze e lunghezza del ciclo mestruale possono influenzare l’esordio della menopausa che può distinguersi in: precoce quando inizia prima dei 40 anni, prematura se inizia prima dei 45 anni e tardiva dopo i 53 anni.
LE FASI
Esistono rilevanti differenze individuali nell’esordio e nella durata delle fasi che caratterizzano la menopausa: il ciclo può cessare improvvisamente o modificarsi in modo graduale, anche nel corso di anni.
Peri-menopausa
I primi segni dell’approssimarsi della menopausa si manifestano spesso anni prima dell’ultima mestruazione. Questa fase di transizione viene definita peri-menopausa. Può durare sei o più anni e termina un anno dopo l’ultima mestruazione. I cambiamenti e i disturbi perimenopausali sono legati alla variazione dei livelli ormonali. Durante la peri-menopausa, i livelli di estrogeno continuano a diminuire, ma in modo non prevedibile. Temporaneamente possono persino essere più elevati rispetto agli anni precedenti. Le alterazioni del ciclo mestruale, le vampate di calore, la secchezza vaginale, i disturbi del sonno e gli sbalzi d’umore sono manifestazioni tipiche e frequenti della peri-menopausa.
Durante questa fase la donna ha ancora la possibilità di restare incinta, anche se la fertilità è complessivamente estremamente ridotta.
Pre-menopausa
Con questo nome si indicano quella fase della peri-menopausa che copre i 2 anni che precedono la menopausa, in questa fase i livelli di estrogeni calano in modo progressivo fino ad arrivare all’assenza di ovulazione.
Post-menopausa
La post-menopausa è il periodo che inizia a partire dall’ultima mestruazione, con ulteriore calo di estrogeni.
I SINTOMI
La menopausa è associata a una sintomatologia che può variare nel tempo di frequenza, intensità e natura. I sintomi a breve termine, se non trattati, possono tuttavia avere delle conseguenze a lungo termine e di valenza patologica, come ad esempio l’osteoporosi.
A seconda dell’epoca di comparsa i sintomi vengono classificati in:
acuti, quando compaiono i primi mesi dopo la menopausa (vampate di calore, insonnia, variazioni del peso corporeo);
intermedi, che si manifestano entro i primi 2-3 anni (disturbi urogenitali, invecchiamento della pelle);
cronici o tardivi, che si manifestano anche a molti anni di distanza. La frequenza e la gravità della sintomatologia sono molto variabili e soggettive.
I SINTOMI PIÙ FREQUENTI SONO:
Alterazioni del ciclo
Con l’approssimarsi della peri-menopausa si possono verificare alterazioni del ciclo in termini di frequenza e intensità delle mestruazioni. Soltanto poche donne riferiscono la brusca interruzione delle mestruazioni da un giorno all’altro. La maggior parte di esse riferisce irregolarità del ciclo mestruale, dovuta alla produzione irregolare di ormoni nelle ovaie. Per lo più i cicli diventano più brevi, quindi le mestruazioni compaiono più spesso rispetto ai consueti 28 giorni. Tuttavia le mestruazioni possono essere più brevi o più lunghe, più o meno intense del solito. Con il passare del tempo, le mestruazioni “saltano” spesso, ossia scompaiono per determinati periodi, per poi riprendere regolarmente. Per la maggior parte delle donne in stato perimenopausale, le variazioni del ciclo sono naturali e non sempre richiedono un trattamento. Non tutte le alterazioni del ciclo mestruale nelle donne sono però riconducibili all’approssimarsi della menopausa. Per questo è importante che un ginecologo valuti la natura delle alterazioni del ciclo mestruale, per escludere altre possibili cause.
Vampate di calore
Si tratta di ondate di calore improvvise, transitorie e fortemente soggettive dovute a vasodilatazione cutanea del volto e del torace, seguite da intensa sudorazione e senso di freddo. Le vampate di calore notturne possono interferire con il sonno, anche se non sono intense al punto da risvegliare la donna. I disturbi del sonno possono causare stanchezza e affaticamento, che a loro volta possono essere motivo di irritabilità (umore depresso, irascibilità, permalosità). Il ginecologo deve escludere altre eventuali cause per le vampate di calore, soprattutto se la menopausa non sembra essere la causa probabile o se sono presenti anche altri sintomi atipici della menopausa. Nella maggior parte delle donne le vampate di calore durano da 3 a 5 anni. Alcune donne non hanno mai vampate di calore o le hanno soltanto per pochi mesi, mentre altre ne soffrono per anni.
Cambiamenti del tono dell’umore
Le donne che in menopausa vivono stati d’animo depressivi hanno spesso sofferto di variazioni d’umore di tipo depressivo anche in passato, ad esempio nel quadro della sindrome premestruale. Se il cambiamento dello stile di vita e le proprie risorse non bastano a influire positivamente sui disturbi di natura psichica, può essere utile un trattamento farmacologico (TOS).
Disturbi del sistema urogenitale e della sfera sessuale
Secchezza vaginale legata alla riduzione dello spessore dei tessuti di rivestimento della vagina e a una ridotta funzionalità delle ghiandole vaginali che rendono meno elastici i tessuti e più difficoltosi e dolorosi i rapporti; incontinenza urinaria e urgenza della minzione per indebolimento dei muscoli pelvici; riduzione del desiderio.
Aumento di peso
Molte donne aumentano di peso dopo i quaranta o cinquant’anni. L’aumento di peso è associato all’invecchiamento, allo stile di vita e ai cambiamenti ormonali della menopausa, ovvero al calo di estrogeni, che comporta diminuzione della massa muscolare e riduce il metabolismo basale e il fabbisogno calorico. La massa adiposa aumenta soprattutto a livello addominale e questo comporta, oltre ad un problema di natura estetica, anche un aumento del rischio di malattie cardiovascolari e di sindrome metabolica.
Alterazioni dello scheletro
Con osteoporosi dovuta a diminuzione di massa ossea indotta dal deficit estrogenico peculiare della menopausa. Il 40% delle donne dopo la menopausa subisce una frattura.
Disturbi del sonno
Colpiscono tra il 40% e il 60% delle donne. L’insonnia è un sintomo correlato al calo degli estrogeni che regolano il ritmo sonno-veglia.
Alterazioni della cute
L’invecchiamento della pelle è legato alla riduzione del collagene, dovuta alla carenza di estrogeni e dell’elasticità, mentre aumentano le rughe, le alterazioni della pigmentazione e la secchezza. Il fumo e i raggi solari aumentano tale effetto e dovrebbero pertanto essere evitati.
da ilpuntosalute | 2 Mag, 2016 | Informazioni mediche
La scoperta degli antibiotici e la loro diffusa disponibilità dopo la seconda guerra mondiale hanno rivoluzionato la sanità. Sono considerati una delle scoperte mediche più rilevanti del XX secolo, ma nel tempo molti batteri hanno imparato a difendersi da quegli stessi farmaci messi a punto per combatterli.
In anni recenti, il fenomeno della resistenza agli antimicrobici (RAM), chiamata antibiotico-resistenza quando è riferita specificamente alla resistenza dei batteri agli antibiotici, è cresciuto fino a diventare un problema drammatico, perché la velocità alla quale vengono scoperte nuove molecole è drasticamente ridotta, mentre l’impiego di antibiotici è in costante aumento in tutti i Paesi del mondo.
La RAM si verifica quando un microrganismo diventa resistente a un farmaco che in origine veniva usato per trattare le infezioni causate da quello stesso germe che può essere un batterio, un virus, un parassita o un fungo.
In generale, i batteri si dividono in due gruppi: i Gram-positivi e i Gram-negativi e la principale differenza tra questi è lo spessore della loro parete cellulare.
La RAM è divenuta un problema di sanità pubblica globale per una serie di motivi, primo tra tutti il crescente, spesso inappropriato, uso degli antibiotici. Questo fenomeno comporta una considerevole riduzione delle possibilità di prevenire e trattare una ampia gamma di infezioni microbiche della pelle, del tratto respiratorio, del sangue circolante e delle vie urinarie, in quanto i germi una volta diventati resistenti perdono la sensibilità al farmaco e si adattano al medicinale che usualmente viene impiegato per ucciderli.
Secondo recenti stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), i “superbug” saranno, nel 2050, la principale causa di morte. La RAM può mettere a repentaglio la maggior parte delle procedure mediche, come ad esempio un intervento di anca, con rischi molto elevati per i pazienti. Tutte le procedure dai trapianti d’organo, alla chemioterapia e chirurgia maggiore verrebbero compromesse gravemente senza la possibilità di attuare un efficace trattamento antibiotico.
Il fenomeno della resistenza agli antibiotici, minaccia la salute dell’uomo, è una delle maggiori sfide di salute pubblica, tanto da diventare priorità dei Governi di tutto il mondo. Nel corso del World Economic Forum di Davos che vede riuniti ogni anno politici, economisti, scienziati e rappresentanti della società civile, è stata presentata la “Declaration by the Pharmaceutical, Biotechnology and Diagnostics Industries on Combating Antimicrobial Resistance”.
Il documento è stato sottoscritto da oltre 80 aziende produttrici di farmaci, medicinali generici, biotecnologie e dispositivi diagnostici e da organismi di settore di 18 Paesi.
L’obiettivo del documento è sollecitare i Governi e le imprese a intraprendere un’azione sinergica e globale di investimenti per combattere il preoccupante e crescente fenomeno dell’antibiotico-resistenza. Tre i punti cruciali in cui si articola la Dichiarazione:
– arginare il fenomeno della resistenza;
– aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo di nuovi e più potenti antibiotici;
– garantire un accesso universale ai nuovi farmaci.
I Ministri della Salute del G7 si sono riuniti a Berlino l’8 e il 9 ottobre 2015 per affrontare il tema delle resistenze antimicrobiche e dell’epidemia di Ebola, in continuità con gli impegni presi nel corso del G7 di giugno, hanno sottoscritto la “Dichiarazione di Berlino sull’antibiotico-resistenza”.
Nella loro dichiarazione, i Ministri definiscono le resistenze antimicrobiche (AMR) una minaccia per la salute globale per i Paesi di tutto il mondo. In assenza di un intervento tempestivo ed appropriato, sarà inevitabile una drammatica perdita di efficacia delle terapie antibiotiche.
Nella Dichiarazione, i Ministri sottolineano la necessità e l’urgenza di una crescente integrazione tra iniziative pubbliche e private di lotta al fenomeno della AMR e un loro coordinamento con azioni promosse in questo ambito dalle diverse organizzazioni internazionali. Il problema della multiresistenza riguarda diversi aspetti multisettoriali e interdisciplinari e vede coinvolti diversi settori della salute umana e animale, l’agricoltura, l’ambiente e la ricerca.
da ilpuntosalute | 13 Apr, 2016 | Informazioni mediche
I Nuovi Anticoagulanti Orali (NAO) stanno assumendo un ruolo sempre più strategico nella prevenzione di eventi tromboembolici nei pazienti a rischio. Per questo motivo diventa importante poter disporre per le rare situazioni d’emergenza, di strumenti che ne inattivino gli effetti in maniera rapida, specifica e sicura.
Disponibile anche in Italia idarucizumab, farmaco che inattiva in maniera specifica l’effetto di dabigatran, inibitore diretto della trombina, primo della nuova generazione di anticoagulanti orali, entrato nel nostro Paese da circa tre anni, offrendo maggiore sicurezza ai pazienti con la fibrillazione atriale non valvolare.
Idarucizumab è un inattivatore specifico per dabigatran ed è indicato nei pazienti adulti trattati con dabigatran etexilato nei casi in cui si rende necessaria l’inattivazione rapida dei suoi effetti anticoagulanti3:
1°: Negli interventi chirurgici di emergenza/nelle procedure urgenti
2°: Nel sanguinamento potenzialmente fatale o non controllato.
Il programma di ricerca di Idarucizumab è stato avviato nel 2009, prima del lancio di dabigatran negli Stati Uniti nel 2010. Si basa sui risultati di studi su volontari sani e su quelli dell’analisi intermedia dello studio clinico RE-VERSE AD™. L’approvazione di idarucizumab da parte della Commissione Europea, avvenuta nel novembre 2015.
Cosa è idarucizumab e qual è il suo meccanismo d’azione?
Idarucizumab è un inattivatore specifico per dabigatran. È un frammento di anticorpo monoclonale umanizzato (Fab) che si lega con altissima affinità a dabigatran, circa 300 volte più potente dell’affinità di legame di dabigatran per la trombina. Il complesso idarucizumab-dabigatran è caratterizzato da una associazione rapida e da una dissociazione estremamente lenta che lo rendono un complesso molto stabile. Idarucizumab si lega in maniera potente e specifica a dabigatran e ai suoi metaboliti e ne neutralizza l’effetto anticoagulante.
“Nuovi Anticoagulanti Orali hanno rivoluzionato la prevenzione dell’ictus in presenza di Fibrillazione Atriale e hanno fatto sì che molti pazienti, che prima del loro ingresso nella pratica clinica non venivano trattati, oggi siano ‘protetti’ da complicanze tromboemboliche – afferma Giuseppe Di Pasquale, Direttore dell’Unità Operativa di Cardiologia dell’Ospedale Maggiore di Bologna –. I plus che li caratterizzano sono ormai noti: rispetto alla terapia anticoagulante tradizionale, i NAO, efficaci almeno quanto warfarin ma più sicuri, non necessitano di controlli ematici costanti, hanno scarsissime probabilità di interazioni con alimenti e altri farmaci, sono somministrati a dosaggio fisso e presentano un ridotto rischio di emorragie cerebrali rispetto alla terapia tradizionale.
Tuttavia esistono ancora alcune remore riguardo l’utilizzo di questi farmaci per la mancanza in un antidoto in caso di emergenza. Per questo motivo, l’arrivo di idarucizumab assume una particolare importanza”.