da ilpuntosalute | 8 Nov, 2024 | Informazioni mediche
oggi è stato presentazione il Libro Bianco AISF 2024: “Le malattie epatiche: definizione di ambiti e interventi per un approccio integrato”.
Il documento offre una panoramica completa sulle malattie epatiche, trattando l’individuazione delle principali patologie e delle relative terapie. Analizza le necessità dei pazienti e l’inquadramento normativo e organizzativo, fornendo raccomandazioni concrete per migliorare il percorso di cura e la gestione della patologia, supportate dall’analisi dei dati raccolti e trattati.
In allegato il comunicato stampa.
Al seguente link il Libro Bianco in formato integrale: https://www.webaisf.org/wp-content/uploads/2024/11/LIBRO-BIANCO-AISF-2024.pdf
da ilpuntosalute | 6 Mag, 2020 | Informazioni mediche
L’Unità di Epidemiologia dell’Istituto di Tecnologie Biomediche del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) sta conducendo un’indagine epidemiologica nazionale sull’infezione da COVID-19…
Leggi: https://ec.europa.eu/eusurvey/runner/EPICOVID19_CNR
da ilpuntosalute | 3 Apr, 2020 | Informazioni mediche
Una notizia ripresa dalla televisione “Iran International TV”, di Londra, affermerebbe che il Ministero di Salute Cinese e quello iraniano hanno dichiarato che la loro medicina tradizionale ha aiutato a controllare e curare i pazienti affetti da CoronaVirus.
Ecco il link https://youtu.be/QD9GfhEN4_g
Su IRIB 3, una tv nazionale dell’Iran, la notizia: “Gli scienziati hanno riferito che il virus resta in aria per diverse ore” e inoltre, “In una città nell’est dell’Iran un medico di medicina persiana, con le sue ricette ha curato pazienti di Coronavirus e in 2 settimane si sono registrati solo 2 decessi in quell’ospedale”.
Ecco il link https://youtu.be/WOtPMKv5ybo
Sulla base della medicina persiana posso consigliare delle ricette per rafforzare il sistema immunitario.
Ogni sera un cucchiaino di cumino nero. Il cumino nero è molto amaro ma deve essere masticato al momento e subito dopo assumere un cucchiaio di miele. Ma anche miele e 2 dita di una grappa che abbia più del 40% di alcool, ma non superare questa dose. Ovviamente questa ricetta non è consigliata per chi ha problemi di fegato.
Per chi ha problemi respiratori e ai polmoni consiglio quello che tradotto letteralmente si chiama “sciroppo di miele”: 2 / 3 cucchiai di melissa insieme a 5 max 7 cucchiai di miele (deve essere quasi mezzo litro tra melissa e miele) e far bollire il tutto in un litro d’acqua mescolando fino a quando buona parte dell’acqua vaporizza e il composto resta concentrato (quasi un litro), poi assumerne alcune gocce. Un’altra alternativa possono essere i tè: di menta, di timo con cannella, di finocchi, di zenzero con cannella e miele, assunti durante il giorno più di 4 volte. Per i pazienti con problemi di cuore, al tè vanno aggiunte: acqua di rosa e cannella.
Poi ancora il succo di carote. E molte altre vitamine. Per esempio quelle che contengono i datteri indiani. Sono di colore rosso e consiglio di metterne 4-5 in una teiera con l’acqua a più di 80 gradi. Dopo 15 minuti si può bere e più rimane nell’acqua e più gli enzimi vengono rilasciati nell’acqua.
Evitate però magnesio e zinco. E il principio attivo: ibuprofene.
Per abbassare la febbre: aceto di mela o alcool sulla testa, sulle braccia e dal ginocchio in giù.
E per la dieta dei pazienti affetti da tutte le tipologie di influenze e coronavirus, suggerisco di eliminare: yogurt, pomodori, cetrioli e prosciutto. Perché in medicina persiana sono di natura fredda.
Aggiungere nell’alimentazione zuppa di cipolle rosse con aglio, zenzero, olio di sesamo, il tutto speziato con timo e curry.
Ho pensato anche a una maschera. Alla maschera di un noto brand francese ho apportato delle modifiche aggiungendo due filtri che distruggono il virus e ricerco un investitore e/o partner con capacità finanziarie e tecniche.
Babak Monazzami
Babak Monazzami è nato a Khorram Abad, in Persia. Si occupa di Medicina Tradizionale Persiana (TIM) e Babilonese. I suoi consigli sono basati sulla medicina persiana, cinese, fisioterapia, psicologia.
Tra il 2008 e 2009 tiene seminari su sport-psicoterapia per giovani rifugiati provenienti da paesi con conflitti e bambini-soldato con depressione borderline, con la collaborazione del dottor Filippo Petrogalli e del dottor Italo Siena, direttore e fondatore del centro Il Naga, a Milano.
Nel 2009 e 2010 ha tenuto seminari sulla psicologia e sulla medicina persiana rivolti agli studenti di psicologia all’Università degli Studi di Milano Bicocca.
Dal 2015 al 2017 ha praticato la medicina persiana presso uno studio privato di Medicina Generale e Tradizionale a Dusseldorf, in Germania.
Per diffondere la medicina persiana negli stessi anni, in seminari rivolti ai medici e agli “heilpraktiker”, ha illustrato soluzioni alternative per varie malattie. A differenza del medico convenzionale, lo Heilpraktiker utilizza metodi naturali quali Omeopatia, Fitoterapia, Agopuntura, Osteopatia/Chiropratica, Kinesiologia, Aromaterapia, Ipnosi, Medicina Cinese, Medicina Quantistica, Metodi di Disintossicazione.
Heilpraktiker è una parola tedesca che significa ‘Colui che pratica la Guarigione’.
da ilpuntosalute | 24 Mar, 2020 | Informazioni mediche
La preoccupazione principale delle pazienti in gravidanza è quella di poter trasmettere il virus al feto in caso di positività. Gli studi riguardanti la trasmissione verticale del virus, cioè dalla madre al feto, non sono ancora del tutto conclusi, ma sono indicativi di assenza di passaggio transplacentare del SARS-CoV-2, la sigla corretta che indica il coronavirus di cui tanto si parla. Allo stato attuale, i dati presenti in letteratura confermano un’assenza di trasmissione verticale madre-feto a partire dal secondo trimestre di gravidanza, ma al momento non vi sono dati relativi all’eventuale interferenza dell’infezione da coronavirus nel primo trimestre di gravidanza. Un recentissimo1 studio condotto in Cina e pubblicato su The Lancet , riporta i primi 19 casi di donne in gravidanza e neonati da madri con sintomatologia clinica da COVID-19 e sappiamo che il virus non è stato rilevato nel liquido amniotico o nel sangue neonatale prelevato da cordone ombelicale. 2Ne è recente conferma anche un caso di neonato a Piacenza, nato negativo da madre positiva. Un ulteriore studio, pubblicato da The Lancet nel Vol. 395 del 7 marzo 20203, afferma che nei due casi di infezione neonatale verificatisi in Cina, registrati 17 giorni e 36 ore dopo la nascita, vi è stato, rispettivamente, nel primo caso un contatto diretto con persone positive al coronavirus (la madre e la caposala del reparto maternità), mentre nel secondo caso un contatto diretto non può essere escluso. Al contempo, lo studio rileva che non vi è al momento evidenza di trasmissione verticale da mamma a bambino.
In ogni caso, le donne in gravidanza sono considerate una popolazione suscettibile di infezioni respiratorie virali, anche per quanto riguarda la semplice influenza stagionale. Per questa ragione il consiglio, sia per loro sia per le persone che vivono a loro stretto contatto, è quello di seguire il più scrupolosamente possibile il Decalogo Coronavirus emanato dal Ministero della Salute e le norme dettate dal buonsenso: lavandosi e disinfettandosi spesso le mani, evitando il contatto ravvicinato con persone che soffrono di infezioni respiratorie acute, erestando rigorosamente a casa, a meno che lo spostamento non sia strettamente necessario, evitando di frequentare luoghi affollati. Anche in questo caso, che la gravidanza si sia ottenuta con metodi naturali o mediante procreazione assistita, i comportamenti da tenere sono esattamente gli stessi.
Le preoccupazioni legate alla possibilità di contagio non terminano con la nascita del bambino, ma continuano durante l’allattamento. Non vi sono al momento evidenze di trasmissibilità del virus attraverso il latte materno e il virus non è stato rilevato già nel latte raccolto dopo la prima poppata, detto colostro, delle donne affette. 4Di conseguenza, date le informazioni scientifiche attualmente disponibili e il notevole ruolo protettivo del latte materno, gli specialisti ritengono che, nel caso di donna con sospetta o confermata infezione da coronavirus, se le condizioni cliniche lo consentono e nel rispetto del suo desiderio, l’allattamento possa essere avviato e mantenuto direttamente al seno o con biberon.
La cosa fondamentale, durante l’allattamento, è ovviamente la protezione del neonato dal possibile contagio. Per ridurre il rischio di trasmissione al bambino, si raccomandano l’adozione delle procedure preventive come l’igiene delle mani e l’uso, durante la poppata, di dispositivi di protezione come mascherina e guanti in lattice usa e getta, secondo le raccomandazioni del Ministero della Salute. Nel caso in cui madre e bambino debbano essere temporaneamente separati, è possibile aiutare la madre a mantenere la produzione di latte attraverso tiralatte, che dovrà essere effettuata seguendo le stesse indicazioni igieniche, e la somministrazione al bambino attraverso biberon.
In caso di positività al virus, sarà il medico a valutare eventuali controindicazioni all’allattamento derivanti da terapie farmacologiche in atto. Fortunatamente viviamo in un Paese dotato di un Sistema Sanitario che rappresenta un’eccellenza a livello internazionale e che ha risposto in maniera pronta, competente ed efficace a questa nuova sfida che ci si impone. Confidiamo nel fatto che a breve questo periodo di emergenza, sebbene stia richiedendo un importante sacrificio a tutti i livelli, possa diventare un lontano ricordo per i nostri pazienti.
Dottor Mario Mignini Renzini
1 “Clinical characteristics and intrauterine vertical transmission potential of COVID-19 infection in nine pregnant women: a retrospective review of medical records”, The Lancet, 12/2/2020
2 Istituto Superiore di Sanità, 27/2/2020: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-gravidanza-parto- allattamento
3 “What are the risks of COVID-19 infection in pregnant women?”, The Lancet, Vol. 395, 7/3/2020
4 Istituto Superiore di Sanità, 27/2/2020: https://www.epicentro.iss.it/coronavirus/sars-cov-2-gravidanza-parto- allattamento
Dottor Mario Mignini Renzini
Professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Milano-Bicocca; referente medico per gli aspetti clinici dei centri Eugin in Italia e responsabile del Centro di Procreazione Medicalmente Assistita della Casa di Cura La Madonnina di Milano, parte del Gruppo San Donato.
da ilpuntosalute | 16 Dic, 2019 | Informazioni mediche
UNA RICERCA DI “ITALIAN HEALTH POLICY BRIEF” METTE IN EVIDENZA LA CARENZA DI PERCORSI STRUTTURATI PER LA GESTIONE DEL PAZIENTE: SU 71 STRUTTURE DI PRONTO SOCCORSO SOLO IL 48% HA UN PROTOCOLLO INTERNO PER LA GESTIONE DEL SOGGETTO CON ASMA GRAVE.
MILANO, 7 NOVEMBRE 2019 – L’Asma Grave è una patologia fortemente invalidante che rimane spesso a lungo priva di un corretto inquadramento diagnostico. La European Respiratory Society (ERS) la descrive come un tipo di Asma che richiede un alto livello di trattamento per evitare che vada fuori controllo o come un tipo di Asma fuori controllo nonostante l’alto livello di trattamento. In Italia l’incidenza dell’Asma è pari al 4,5% della popolazione, ossia circa 2,8 milioni di persone; l’Asma Grave invece riguarda circa il 5-10% della popolazione complessiva di asmatici (fonte: Associazione Allergologi e Immunologi Italiani Territoriali e Ospedalieri-AAIITO).
“L’emersione della patologia è un problema rilevante ed il ritardo diagnostico comporta negative ripercussioni cliniche ed incremento di costi sociali ed economici tra cui perdita di giornate lavorative, frequenti riacutizzazioni, ripetuti accessi al Pronto Soccorso” è la considerazione sulle criticità offerte della patologia proposta da Fausto De Michele, Direttore della Pneumologia dell’ospedale Cardarelli di Napoli, “La disponibilità di nuove opzioni terapeutiche costituisce oggi una opportunità che bisogna garantire ai pazienti all’interno di un appropriato percorso diagnostico terapeutico. L’identificazione del paziente e la sua fenotipizzazione è prerogativa di Centri specialistici, ma l’accesso a tali centri può essere favorito dalla identificazione del sospetto clinico che si può generare, sia nel setting della Medicina Generale che nel setting del PS in caso di accessi per crisi di Asma”.
Per giungere ad offrire una fotografia fedele del setting del paziente con Asma Grave nel suo percorso di accesso, presa in carico e dimissione dal Pronto Soccorso nel nostro Paese la testata ITALIAN HEALTH POLICY BRIEF ha sviluppato la ricerca qualitativa ASMA GRAVE – DISEASE MANAGEMENT AND PATIENT FLOW IN PRONTO SOCCORSO, una survey basata su interviste face to face realizzate con 71 medici di Pronto Soccorso di tutto il territorio nazionale (24 in ospedali con PS semplice; 27 interviste con DEA di 1° Livello; 20 interviste con DEA di secondo livello).
Nella Ricerca IHPB-ALTIS emerge una grande variabilità nei modelli di gestione del paziente con asma grave: meno della metà dei PS (48%) ha definito un protocollo interno per la gestione del paziente con Asma Grave, solo il 38% ha definito un protocollo per il follow up e meno di un terzo degli ospedali (29%) ha un team multidisciplinare per il setting completo del paziente.
Nel confronto fra PS con protocollo per la gestione dell’Asma Grave (48% dei PS) e PS senza protocollo (62% dei presi in esame), emergono differenze significative negli outcome e nei modelli di gestione del paziente, a favore delle strutture con protocollo. Le differenze riguardano: il minor numero di riacutizzazioni e accessi al PS (2,48/2,72 vs 3,04/3,11); la maggiore percentuale di pazienti a cui viene prescritto un piano di follow up dettagliato in dimissione (61% vs 36%); la maggior percentuale di pazienti a cui viene impostato un trattamento in dimissione (83% vs. 77%); il minor utilizzo di corticosteroidi per via orale (OCS) nei trattamenti impostati in dimissione (39% vs 58%).
La ricerca IHPB-ALTIS ha quindi identificato alcuni “critical issues nella gestione del paziente con Asma Grave nei PS italiani” che possono essere così sintetizzati:
- – carenza di percorsi strutturati per la gestione del paziente con Asma severo in PS (presenti nel 48% delle strutture) e nel follow up (38% delle strutture);
- – carenza di team multidisciplinari (29% delle strutture);
- – carenza di una rete territorio-ospedale per la gestione specialistica del paziente con Asma Grave sul territorio (52% dei pazienti dimessi dal PS senza un piano di follow up, 26% dei pazienti inviati solo al MMG senza una presa in carico specialistica).
In compenso i dati raccolti nelle interviste al campione verso cui è stata rivolta la ricerca hanno registrato un impatto decisamente positivo sugli outcome (riacutizzazioni/ accessi al PS) e sui modelli di gestione del paziente (referral, prescrizione OCS in dimissione) della presenza di un protocollo per la gestione del paziente. La Ricerca IHPB-ALTIS mette in rilievo quanto sia fondamentale definire protocolli per la gestione del paziente con Asma Grave in Pronto Soccorso: infatti nei reparti dove sono stati definiti percorsi strutturati e dove sono presenti team multidisciplinari si rilevano outcome migliori dei pazienti, trattamenti più appropriati e una migliore presa in carico del paziente alla dimissione. Appare quindi fondamentale lavorare per implementare protocolli strutturati e favorire i team multidisciplinari in modo che il medico di PS possa gestire il paziente con Asma Grave con l’immediato supporto dello specialista e secondo percorsi condivisi.
“Affinché il paziente gestito in urgenza nel setting del Pronto Soccorso non si disperda sul territorio è necessario stratificare i pazienti in base ad alcuni parametri, per esempio se si tratti di un primo episodio o si si tratti di un paziente asmatico noto, oppure – in dimissione – se si tratta di risoluzione completa dei sintomi versus parziale remissione della sintomatologia”, precisa Francesco Rocco Pugliese, presidente SIMEU, “In base alla stratificazione di rischio possiamo quindi delineare i seguenti percorsi post dimissione dal PS: effettuazione della visita pneumologica contestuale all’accesso di PS; programmazione della visita pneumologica dopo la dimissione; programmazione di visita di follow-up presso il Medico di medicina generale. Quindi non dovrà essere il paziente a gestire la sua visita di controllo e la sua tempistica: tutto questo deve essere pianificato già al momento della gestione in PS, determinando una vera presa in carico del paziente è verosimile che il paziente diventi più aderente alla terapia e ai successivi controlli”.
La Survey ha indicato come il vero problema sia il follow-up territoriale del paziente dimesso dal Pronto Soccorso. Dal punto di vista dei pazienti, quali commenti possono essere proposti alle problematiche rilevate nella ricerca sviluppata dall’Italian Health Policy Brief? “I dati della Survey non ci hanno stupito”, precisa Simona Barbaglia, presidente dell’Associazione Respiriamo Insieme Onlus, “anzi hanno confermato le osservazioni che da anni rileviamo nel relazionarci con i pazienti affetti da Asma ed Asma Grave. Nei 5 anni di attività dell’Associazione abbiamo infatti riscontrato quanto il Pronto Soccorso sia un osservatorio privilegiato sulla patologia perché è un luogo di cura che, presto o tardi, per una crisi di difficile controllo a casa o per una crisi Grave, viene utilizzato da tutti i pazienti Asmatici. Proprio per questo potremmo dire che il PS è esattamente il luogo ideale per il corretto referral del paziente”.
Sarebbe auspicabile – hanno concordato i tre esperti intervenuti alla Conferenza Stampa, che i pazienti che accedono in PS con una specifica anamnesi e determinati sintomi che propendono per una possibile diagnosi di Asma Grave, siano dimessi solo dopo essere stati inviati al servizio specialistico dell’Ospedale per l’avvio di una corretta presa in carico. “Purtroppo – conclude Barbaglia – come i dati della Survey rilevano ed i nostri soci ci riportano, alla dimissione dal PS solo una percentuale molto piccola ha fatto il fondamentale passaggio verso lo specialista, mentre è solitamente prassi più comune stabilizzare i sintomi della crisi e rinviare al domicilio e al MMG. Si tratta di un passaggio che troppo spesso porta alla ‘perdita’ di una grande occasione per ingaggiare correttamente il paziente nella sua complessità. Il rapporto tra medico di emergenza-urgenza e MMG dovrebbe dunque comprendere inevitabilmente la triangolazione con lo specialista ospedaliero che valuta la gravità dell’Asma, dispone azioni ed interventi per la risoluzione della crisi oggetto della sua consulenza, ma soprattutto avvia la presa in carico specialistica che potrà garantire un adeguato percorso terapeutico ed un incremento dell’awareness e compliance del paziente”.
da ilpuntosalute | 9 Ott, 2019 | Informazioni mediche
Presentata in anteprima nazionale In famiglia all’improvviso, web fiction in dieci puntate tra dramma e commedia realizzata per cambiare la narrativa sul tumore del polmone, malattia che coinvolge tutta la famiglia, raccontando le tappe del nuovo percorso di diagnosi e cura.
Il progetto, promosso da Salute Donna Onlus, Salute Uomo Onlus e WALCE – Women Against Lung Cancer in Europe onlus è realizzato nell’ambito della campagna informativa In famiglia all’improvviso. Combattiamo insieme
il tumore del polmone, che ha l’obiettivo di aiutare pazienti e familiari a comprendere
la tipologia di tumore e a condividere con il medico la terapia più appropriata.
I dieci episodi della webfiction sono pubblicati da oggi a cadenza settimanale
sul sito www.infamigliaallimprovviso.it
Milano, 12 settembre 2019 – Una diagnosi di tumore stravolge la vita. Non solo la vita del paziente, ma quella di tutta la famiglia, che deve confrontarsi con nuovi ritmi e priorità. A maggior ragione quando si tratta di tumore del polmone, tra i primi per diffusione e uno dei principali ‘big killer’. Familiari e caregiver, non meno del paziente, devono affrontare insieme un lungo e difficile viaggio e hanno bisogno di conoscere, tappa dopo tappa, la realtà con cui devono confrontarsi.
Oggi questo percorso viene raccontato in modo originale nella web fiction In famiglia all’improvviso, una web serie in 10 puntate al confine tra dramma e commedia che cambia la narrativa sul tumore del polmone, parlandone da un nuovo punto di vista.
Non solo quello della prevenzione e dei fattori di rischio come il tabacco, ma anche raccontando il percorso che attende paziente e familiari, nel quale si sono aperti nuovi scenari: la possibilità di identificare il profilo molecolare del tumore permette di assicurare la terapia più appropriata per ciascun paziente, migliorandone le prospettive e restituendo speranza.
La web fiction, diretta da Christian Marazziti e da oggi online su www.infamigliaallimprovviso.it, è il fulcro della campagna d’informazione In famiglia all’improvviso. Combattiamo insieme il tumore del polmone, un progetto promosso da Salute Donna Onlus, Salute Uomo Onlus e WALCE – Women Against Lung Cancer Europe onlus.
Il percorso informativo proposto dalla campagna, ricalcato sull’esperienza reale di pazienti, familiari e caregiver, si articola in sei tappe: sospetto diagnostico, diagnosi effettiva e tipizzazione, terapia, convivere con la malattia, diritti del paziente, supporto psicologico.
«Sino ad oggi l’attenzione si è concentrata sulla prevenzione, in particolare sulla lotta contro il fumo – dichiara Annamaria Mancuso, Presidente di Salute Donna Onlus e Salute Uomo Onlus – ma attualmente sul tumore del polmone si sa molto più che in passato, le conoscenze sono cresciute sebbene rimanga una forma di cancro molto grave e complessa. È questo uno dei motivi che ci hanno convinto a spostare il focus sull’esperienza di malattia: iniziative come In famiglia all’improvviso rivestono un ruolo di rilievo nell’informare i pazienti e tutta la popolazione. La vera novità della web fiction è che testimonia da dentro il vissuto della persona malata e della famiglia travolta all’improvviso dalla comparsa del tumore».
In termini di incidenza, il tumore del polmone è il terzo più frequente nella popolazione italiana, con circa 41.500 nuovi casi attesi ogni anno (dato AIRTUM-AIOM 2018), e rappresenta ancora la prima causa di morte per neoplasia negli uomini e la terza nelle donne.
Il percorso diagnostico e terapeutico del tumore del polmone in questi ultimi anni ha conosciuto una importante evoluzione. Il punto di svolta è la possibilità di identificare, attraverso test molecolari, il profilo genetico di ciascun tumore, ovvero le mutazioni specifiche che permettono di ottenere informazioni fondamentali per la scelta della terapia più appropriata.
«L’introduzione di terapie a bersaglio molecolare e dell’immunoterapia ha modificato in maniera radicale le aspettative di vita delle persone affette da tumore polmonare, perlomeno per molte di loro – spiega Silvia Novello, Professore ordinario Oncologia Medica, Università degli Studi di Torino – Dipartimento di Oncologia, Responsabile SSD Oncologia Polmonare, AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano e Presidente WALCE onlus – questi approcci innovativi hanno migliorato in modo significativo anche la qualità di vita dei pazienti. Eseguire i test molecolari è fondamentale per identificare il tipo di tumore e per definire la migliore strategia terapeutica possibile. Per questo motivo l’accesso ai test e la loro tempestiva esecuzione andrebbero garantiti in modo uniforme sul territorio italiano ed europeo».
Negli ultimi anni il trattamento del tumore del polmone ha fatto registrare un importante cambio di paradigma grazie all’avvento dell’immunoterapia, che sta aprendo prospettive fino a oggi insperate per un numero crescente di pazienti.
«La cura del tumore del polmone nel 2019 ha tantissime possibilità che offrono una significativa probabilità di allungare la vita e di migliorarla, ma per ottenere questi risultati le terapie devono essere personalizzate al massimo e mirate a un preciso tipo di tumore polmonare – spiega Marina Chiara Garassino, Responsabile Struttura di Oncologia Toracica, Dipartimento di Oncologia Medica, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – I pazienti con PD-L1 positivo (>50%) e che non hanno alterazioni molecolari, vengono trattati con immunoterapia, mentre i pazienti PD-L1 con valore inferiore al 50% ricevono un trattamento chemioterapico, nell’attesa che diventino disponibili gli schemi di chemioterapia e immunoterapia».
La gestione di un paziente che riceve una diagnosi di carcinoma del polmone richiede il coinvolgimento di molti specialisti. All’interno del team un ruolo chiave è quello dello psiconcologo che è deputato a offrire supporto psicologico al paziente, ma anche ai familiari e al caregiver.
«Lo psiconcologo collabora e si integra con tutte le figure professionali del team multidisciplinare – sottolinea Chiara Borreani, Psicologa, Responsabile Struttura di Psicologia Clinica, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – Il suo ruolo non è rivolto soltanto a sostenere il paziente dal punto di vista psicologico ma anche a creare i presupposti affinché la comunicazione di tutto lo staff sanitario nei confronti del paziente sia corretta e adeguata. Lo psiconcologo valuta la situazione emotiva e di contesto del paziente per capire quali sono i bisogni reali suoi e della famiglia e le risorse che può mettere in campo e adattare di conseguenza la comunicazione e gli interventi terapeutici».
Per promuovere capillarmente l’informazione sul tumore del polmone e sui progressi della ricerca da oggi è online la pagina web www.infamigliaallimprovviso.it che, oltre a ospitare con cadenza settimanale i dieci episodi della web fiction, fornirà informazioni e approfondimenti sulle sei tappe del percorso diagnostico-terapeutico.
«La sfida è stata per noi quella di affrontare un tema ostico, complesso e anche doloroso come il tumore del polmone e al tempo stesso utilizzare un linguaggio in grado di non allontanare gli spettatori – commenta Christian Marazziti, regista, autore e interprete – Mi auguro che con questo progetto siamo riusciti a raccontare i principali aspetti del tumore del polmone con la giusta delicatezza, rispettando il tema e il profilo di tutti i personaggi, con un’ironia priva di sottolineature macchiettistiche. Grazie all’empatia con i personaggi, lo spettatore si immedesima, segue le loro vicende nell’arco di tutti i 10 episodi, e in questo modo riceve i messaggi fondamentali sulla prevenzione, la diagnosi, le varie fasi della cura del tumore del polmone».
Nel corso del 2019 un calendario di eventi e incontri aperti al pubblico con la partecipazione di specialisti, associazioni dei pazienti, rappresentanti delle istituzioni porterà la nuova narrativa del tumore del polmone e i messaggi chiave della campagna in diverse città italiane. Nel prossimo autunno saranno coinvolte la Puglia il 9 ottobre, le Marche il 14 novembre e il Piemonte il 5 dicembre.
La web fiction
La web fiction In famiglia all’improvviso, ideata e curata da Pro Format Comunicazione, si avvale della produzione esecutiva di Nicola Liguori e Tommaso Ranchino per MP Film.
La chiave narrativa unisce dramma e commedia in un classico intreccio di “cinema nel cinema”: il protagonista Fernando, regista fuori dal giro, riceve la proposta di realizzare un docufilm per raccontare l’impatto del tumore del polmone nella vita di una famiglia. Dopo aver messo insieme un cast di attori semifalliti come lui, si stabilisce con loro nella villa dove l’ingegner Carlo, il paziente, abita con moglie e figlio. Tra iniziali diffidenze, ironie, momenti di commozione, comincia un viaggio di reciproca scoperta e avvicinamento tra la famiglia e gli attori, in un’altalena di paure, speranze, rivelazioni che si concluderà con una nuova consapevolezza sulla malattia e le vere priorità della vita.
da ilpuntosalute | 19 Set, 2019 | Informazioni mediche
Presentato “Call to Action” il nuovo documento d’indirizzo della Regione
La sepsi causa in Italia circa 34.000 morti all’anno – La Toscana risponde oggi, in occasione della Giornata Mondiale della Sepsi, con un piano operativo che fa scuola: un lavoro di squadra frutto del contributo di professionisti di diversa estrazione, con il coordinamento del Centro Regionale di Gestione del Rischio Clinico e dell’Agenzia Regionale di Sanità – Il fattore tempo e il ruolo della microbiologia sono fondamentali per un’adeguata risposta sanitaria che deve essere interdisciplinare e integrata.
Siena, 13 settembre 2019 – Si chiama Call to Action il documento di indirizzo della Regione Toscana per la lotta alla sepsi, un’emergenza sanitaria che ogni anno causa circa 34.000 morti in Italia, fanalino di coda nell’Unione Europea per numero di decessi. Secondo la Global Sepsis Alliance la sepsi colpisce ogni anno nel mondo tra i 27 e i 30 milioni di persone, causando la morte di un numero di pazienti che oscilla tra 7 e 9 milioni.
La sepsi è causata da una risposta sregolata a un’infezione da parte del sistema immunitario che, invece di reagire contro i microorganismi invasori, attacca l’organismo stesso, danneggiando anche organi e tessuti che non sono sede dell’infezione primaria. Si tratta di una grave complicazione che mette in pericolo la vita nell’arco di poche ore. Per questa ragione la si può definire come una patologia tempo-dipendente, al pari dell’ictus o dell’infarto miocardico, ed impone una risposta sanitaria rapida che presuppone una diagnosi altrettanto tempestiva e soprattutto accurata.
Della minaccia tuttora incombente rappresentata dalla sepsi si è parlato oggi a Siena nel corso di un convegno in occasione della Giornata Mondiale della Sepsi. In questo ambito la situazione epidemiologica della Regione Toscana è in preoccupante evoluzione: dal 2012 al 2017 i ricoveri si sono accresciuti del 33 per cento e oggi, secondo le stime più recenti, sono attesi oltre 15.000 casi di sepsi o shock settico all’anno.” Si ritiene che l’incremento dei casi di sepsi riconosciuta – ha rilevato Fabrizio Gemmi, coordinatore dell’Osservatorio per la Qualità e l’Equità dell’ARS Toscana – sia spiegato da una migliore attenzione diagnostica e alla codifica. Questa patologia – ha proseguito – riguarda circa l’1,8 per cento dei pazienti ricoverati in Toscana, con un’incidenza pari a 261 pazienti ogni 100.000 abitanti”.
Va ricordato che, in coloro che sopravvivono, la sepsi può lasciare importanti sequele: “La casistica toscana mostra come un paziente su cinque, ospedalizzato per sepsi, necessiti di un nuovo ricovero entro un mese dalla sua dimissione – afferma Sabino Scolletta,Direttore UOC Rianimazione e Medicina Critica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese – circa il 50 per cento dei pazienti ha un recupero funzionale più o meno completo, Il 30 per cento – ha proseguito il Prof. Scolletta – spesso non sopravvive nei successivi 12 mesi e, il restante 20 per cento, può presentare gravi disturbi che includono importanti limitazioni quotidiane funzionali e cognitive”. Dati, questi che hanno spinto la Regione Toscana a varare un piano operativo organico, messo a punto dal Centro Gestione Rischio Clinico della Regione Toscana e dall’Agenzia Regionale di Sanità, in collaborazione con l’Università di Siena. “Proprio per il fatto che il rischio sepsi è multifattoriale, il principio ispiratore di fondo del nostro documento d’indirizzo Call to Action è stato quello di promuovere la consapevolezza del problema in tutti i settori del Servizi Sanitari coinvolti, dai consultori all’emergenza territoriale e alla medicina di base – ha dichiarato Giulio Toccafondi, Referente del Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente della Regione Toscana –Occorre poi fare in modo che, una volta identificato un caso di sepsi – ha proseguito – le risorse del sistema sanitario operino in sinergia e in modo integrato, attraverso il concorso di più professionisti, che si ritrovino intorno al letto del paziente, superando l’abituale routine del singolo reparto”.
Per la rapidità di risposta alla sepsi, centrale è anche il ruolo dei Laboratori e della Microbiologia. In proposito, il Prof. Gian Maria Rossolini, Ordinario di Microbiologia e Microbiologia Clinica presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica dell’Università degli Studi di Firenze, ha rilevato che “l’emocoltura è l’indagine microbiologica fondamentale per identificare i batteri eventualmente presenti nel sangue. Per un orientamento diagnostico rapido esistono inoltre biomarcatori e, oggi, sono disponibili metodiche di microbiologia rapida (“fast microbiology”), che accorciano notevolmente i tempi della diagnosi e consentono di identificare i batteri in attesa dell’esito dell’emocoltura, verificando se siano portatori di resistenza nei confronti degli antibiotici di maggiore impiego. Informazione, quest’ultima, estremamente preziosa perché, in attesa dell’antibiogramma, consente di definire la corretta e personalizzata terapia antibiotica, la cui precocità è determinante per la prognosi”.
“Dopo aver sottolineato che la sanità regionale, grazie all’impegno dei professionisti, del Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente, dell’Agenzia Regionale di Sanità e delle Università, si è presentata all’appuntamento con la giornata mondiale di lotta alla sepsi con un contributo importante di idee e di progetti concreti, Stefano Scaramelli, Presidente della Commissione Sanità e Politiche Sociali della Regione Toscana, ha dichiarato: “La medicina territoriale, l’ospedale, i cittadini attenti e consapevoli, insieme, possono fare la differenza e, in questa direzione, la Regione ha inteso contribuire anche con l’istituzione del Consiglio dei Cittadini, nell’ottica di aumentare la consapevolezza e la conoscenza che, insieme, possono rappresentare contributi determinanti”
da ilpuntosalute | 4 Set, 2019 | Informazioni mediche
Una patologia dimenticata
UN MAL DI PANCIA DELLA SANITA’ ITALIANA: LA SINDROME DELL’INTESTINO IRRITABILE
Sintomi pesanti da sostenere, con ripercussioni sulla qualità di vita – Costi sanitari significativi – Urgono scelte di politica sanitaria che offrano le risposte ai bisogni di chi soffre – L’importanza di un più agevole accesso ai percorsi diagnostico terapeutici e all’innovazione – Fondamentale la partnership tra paziente, specialista e medico di medicina generale per evitare un pericoloso “fai da te”
Roma, 29 maggio 2017 – Toglietevelo dalla testa, in tutti i sensi: la sindrome dell’intestino irritabile, a lungo considerata malattia psicosomatica, non è una patologia “inventata” né una serie di fastidi che nascono dallo stato psicologico, ma una vera malattia. È piuttosto un quadro gastrointestinale con molteplici sintomi, variamente associati tra loro, di intensità e frequenza diversa, con momenti di relativo benessere che si alternano a fasi di riaccensione dei disturbi. Ed è una pessima compagna di strada che condiziona la vita di molti pazienti – in Italia sono oltre il 7 per cento della popolazione, in prevalenza femminile – e che, nelle sue manifestazioni più gravi, la sconvolge profondamente.
Dolore addominale, sensazione di distensione dell’addome e meteorismo, accompagnati da stipsi e/o diarrea sono i segnali che debbono inviare all’attenzione del medico, evitando l’abuso di farmaci “fai da te” da parte del paziente. “Purtroppo, sulle cause di questa patologia sappiamo ancora poco, malgrado siano state riscontrate numerose alterazioni, ognuna delle quali, però, non consente di identificare in modo univoco la malattia – afferma Enrico Stefano Corazziari, Professore di Gastroenterologia all’Università di Roma La Sapienza – molti studi ipotizzano una disfunzione del sistema immunitario, altri puntano il dito sulla ipersensibilità viscerale presente in molti pazienti”. Resta il fatto che quando fino a qualche decennio fa veniva considerato una sorta di “proiezione” del cervello sul tubo digerente è oggi considerato una malattia “microrganica”, che come tale va riconosciuta, diagnosticata e correttamente trattata con un approccio su misura per ogni paziente.
Le caratteristiche di questa patologia e i numerosi problemi che comporta sono al centro del convegno promosso da Public Health & Health Policy, rivista di economia e politica sanitaria, dal titolo “La sindrome dell’Intestino Irritabile: malattia sociale tra complessità terapeutiche, innovazione e sostenibilità”. L’evento si è tenuto oggi a Roma all’Istituto Superiore di Sanità, e ha visto la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni e del mondo advocacy, oltre ai massimi esponenti della gastroenterologia nazionale, con l’obiettivo di individuare le strategie capaci di offrire soluzioni adeguate per un delicato ambito sanitario nel quale mancano ancora troppe risposte sul piano diagnostico e assistenziale. Questo, anche per “… l’assenza di specifiche iniziative in materia di politica sanitaria – commenta la Senatrice Emanuela Baio, presidente di IBSCOM, il Comitato per la Sindrome dell’Intestino Irritabile – che confermano l’esistenza di una preoccupante disattenzione istituzionale in materia che con il nostro impegno ci prefiggiamo di contrastare”.
Il quadro sanitario, a detta dei partecipanti, è oggi scarsamente riconosciuto ed è caratterizzato da diagnosi il più delle volte tardive perché spesso sottovalutate dai pazienti e spesso dagli stessi medici, nel quale i sintomi sono contrastati in modo inadeguato con un frequente e casuale ricorso dei pazienti al dannoso “fai da te” o, ancor peggio, con suggerimenti trovati sulla rete. “Oggi è dimostrato che la sindrome dell’intestino irritabile è una vera e propria patologia micro – organica – ha dichiarato Vincenzo Stanghellini, Professore Ordinario di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna – e, come specialisti, abbiamo il dovere di diffondere questa informazione. È necessario creare una partnership che veda il paziente adeguatamente informato – ha proseguito Stanghellini – e in grado di fare da ponte tra lo specialista e il medico di medicina generale, essendo così il vero protagonista del proprio percorso di cura”.
Fondamentale è quindi che questa patologia “dimenticata” sia al più presto oggetto di una diversa e maggiore attenzione da parte del Servizio Sanitario Nazionale che renda più agevole l’accesso ai percorsi diagnostico-terapeutici e, almeno per i casi più gravi, alle terapie rese disponibili dall’innovazione e in grado di offrire sollievo rispetto a condizioni di vita spesso devastate. Non va sottovalutato infine il problema dei costi per il sistema sanitario e per il singolo. Diverse osservazioni internazionali, che hanno considerato anche la situazione italiana, dimostrano che la sindrome dell’intestino irritabile, nelle sue diverse forme, oltre a produrre gravi ripercussioni sia dal punto di vista personale che sociale, genera costi socio-sanitari di notevole importanza – soprattutto generati dai ricoveri ospedalieri – sovrapponibili a quelli di altre patologie quali il diabete, l’ipertensione e le osteoartriti. Costi che, con una maggior risposta sanitaria sul piano diagnostico e terapeutico, potrebbero essere sensibilmente ridotti.
Per ulteriori informazioni, contattare la redazione ALTIS ai seguenti recapiti:
Marcello Portesi, 348-9997009
Francesca Portesi, 02-49538304 / 347.9087479
da ilpuntosalute | 4 Set, 2019 | Informazioni mediche
Costituito l’Intergruppo parlamentare per dare impulso a nuove scelte di politica sanitaria
TUTELA DELLA VISTA: LA CECITA’ DEL NON FARE
Al centro dell’attenzione saranno le patologie della retina e del nervo ottico ancora fortemente sottovalutate – Fondamentale promuovere nuove scelte di politica sanitaria e favorire il ricorso a modelli gestionali più efficaci ed efficienti – Più di tre milioni gli italiani colpiti da patologie della retina e del nervo ottico – L’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità-IAPB Italia onlus opererà come organismo consulenziale tecnico dell’intergruppo e si impegnerà in nuove iniziative di sensibilizzazione, anche su scala nazionale
Roma, 11 giugno 2019 – Presentato oggi alla Camera dei Deputati l’Intergruppo Parlamentare per la Tutela della Vista. L’iniziativa è stata presa da un gruppo di Senatori e Deputati appartenenti a diversi schieramenti politici, anche a seguito di una serie di iniziative di sensibilizzazione promosse dall’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità-IAPB Italia onlus,che ha effettuato uno screening delle patologie ottico-retiniche presso i due rami del Parlamento.
Sono ben più di tre milioni gli italiani colpiti da malattie della vista che interessano la retina e il nervo ottico: retinopatia diabetica, glaucoma e maculopatia che, nel loro insieme, anche a causa della loro tendenza ad una ulteriore diffusione per l’invecchiamento della popolazione, lasciano intravedere in un futuro non lontano minacciosi scenari per quanto riguarda la qualità della vita degli italiani e la sostenibilità della spesa sanitaria. In questo quadro, l’elemento di maggior preoccupazione è il fatto che queste tre patologie non sono ancora contrastate in modo efficace: la mancata esecuzione di screening periodici, il limitato accesso a percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali e il problema delle liste d’attesa producono ritardi diagnostici e trattamenti tardivi che conseguentemente possono risultare inadeguati.
“Occorre agire con determinazione – ha dichiarato l’On. Paolo Russo, Presidente dell’Intergruppo parlamentare ed egli stesso oculista – intervenendo anche sul piano legislativo e la risposta può venire solo dal fatto di promuovere l’adozione di scelte di politica sanitaria che rendano possibili nuovi modelli gestionali – sistematici e strutturali – che consentano di affrontare questo specifico ambito sanitario secondo le indicazioni e i suggerimenti della comunità scientifica internazionale. Considerando che nel nostro Paese abbiamo potenzialità e competenze scientifico-tecnologiche non comuni, che vanno comunque messe a sistema in modo sinergico – ha proseguito – non intervenire sarebbe una grave colpa”.
Gli ambiti nei quali l’Intergruppo opererà sono essenzialmente quattro:
- promozione di politiche sanitarie che pongano la tutela della vista e la prevenzione delle patologie oculari al centro dell’agenda sanitaria del Paese;
- varo di iniziative di carattere legislativo e politico in grado di sollecitare Governo e Regioni verso l’adozione di provvedimenti che possano garantire a tutti i cittadini e su tutto il territorio una miglior prevenzione e una miglior cura delle patologie oculari, nonché l’accesso ai servizi di riabilitazione visiva;
- creazione di favorevoli condizioni per una più ampia adozione delle attività di screening atte a conseguire un miglioramento dei livelli di assistenza e una riduzione dei costi per il Servizio Sanitario Nazionale;
- dare impulso ad iniziative di standardizzazione e centralizzazione dei dati clinici che consentano di ottimizzare conoscenze e sinergie tra le diverse strutture sanitarie del Paese.
Organismo consulenziale tecnico dell’Intergruppo Parlamentare sarà la stessa Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità-IAPB Italia onlus,che è già fortemente impegnata in numerose iniziative di sensibilizzazione e che, al di là di quanto già fatto presso Camera e Senato, si appresta a varare altri progetti su scala nazionale con il supporto della rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief (IHPB).
“La prevenzione – ha dichiarato l’avv. Giuseppe Castronovo, Presidente di IAPB Italia onlus – è un dovere di ogni persona: tra l’altro consente di evitare molte malattie oculari e notevoli sofferenze, oltre che un aggravio importante di spesa pubblica. Per questo i cittadini devono recarsi periodicamente dall’oculista e portarci i propri figli. Come diceva Leonardo da Vinci la vista è il signore dei sensi. Per questo non dobbiamo mai trascurarla: solo così potremo avere sempre luce nella vita”.
L’affermarsi di nuovi e più efficaci paradigmi gestionali per le patologie ottico-retiniche potrebbe produrre salutari contributi alla sostenibilità della spesa sanitaria. A titolo di esempio, basterà ricordare che, secondo uno studio prospettico elaborato nel 2017 dal CEIS (Centre for Economic and International Studies-Università di Roma Tor Vergata), la retinopatia diabetica, in assenza di un miglioramento del quadro assistenziale, genererà un aumento della spesa sanitaria di 4,2 miliardi di euro nel periodo 2015-2030.
“La ricerca è impegnata su vari fronti e qualche risultato lo ha già dato – ha sottolineato il Prof. Filippo Cruciani, referente scientifico di IAPB Italia onlus – ma ciò su cui bisogna soprattutto puntare è la prevenzione sia primaria che secondaria. Primaria – ha proseguito – vuol dire sostanzialmente stile di vita mentre la secondaria consiste nella diagnosi precoce, quando la malattia è ancora allo stato asintomatico; purtroppo l’attitudine alla prevenzione è ancora molto bassa nel nostro Paese”.
Proprio in materia di scarsa attenzione alla prevenzione una conferma è venuta anche dallo screening della retina promosso presso il Senato della Repubblica e la Camera dei Deputati dall’Agenzia Internazionale per la Prevenzione della Cecità- IAPB Italia onlus: “ … dei parlamentari che si sono sottoposti agli esami – ha commentato il Dott. Marco Verolino, responsabile oculistica Ospedali Riuniti Area Vesuviana – ASL Napoli 3 Sud, che dell’indagine è stato il coordinatore – è risultato che il 65 per cento non esegue una visita oculistica completa di fondo oculare con regolarità una volta l’anno e che il 35 per cento ha eseguito un esame del fondo oculare solo a seguito di disturbi visivi. Se si considera ha proseguito – che, in questo caso, si tratta di un segmento di persone che, per diverse ragioni, dovrebbe essere particolarmente avvertito, possiamo comprendere quanto ancora resti da fare in materia di prevenzione”.
Per ulteriori informazioni, contattare la redazione ALTIS ai seguenti recapiti:
Marcello Portesi, 348-9997009
Francesca Portesi, 02- 49538304/ 347-9087479
da ilpuntosalute | 28 Giu, 2019 | Informazioni mediche
C’è la neomamma che ha fatto pratica come zia e crede di sapere già tutto, ma quando ha tra le mani il suo primo figlio non sa da dove iniziare. C’è la coppia preoccupata che i fratellini accettino la sorellina in arrivo. C’è la dottoressa che ha riempito l’ambulatorio di giochi e stampe colorate, perché voleva un posto dove i bambini piangessero ma per non andare via. C’è il papà che non si muove da due ore, perché ha trovato una posizione congeniale per il suo piccolo in braccio e teme di svegliarlo.
Sono solo alcune delle storie di “Vite in attesa”, il percorso espositivo di foto e racconti dedicato alla sorpresa della nascita, visitabile gratuitamente fino alla fine di ottobre, presso l’Ospedale San Giuseppe di Via San Vittore.
40 foto e altrettanti brevi racconti di tutti coloro che aspettano, fremono e si preparano ad accogliere una nuova vita.
Ritratti che raccontano gioie e paure, domande e risposte di tutti coloro che aspettano un bambino, per vederlo nascere e crescere. Perché l’attesa non è solo della madre, ma dell’intera famiglia, della cerchia di amici, del ginecologo e dell’ostetrica che seguono la gravidanza, di tutti quelli che vedono la pancia e sorridono, pensando al miracolo della vita. L’idea nasce dalla collaborazione tra il Gruppo MultiMedica, polo ospedaliero cui fa capo anche il San Giuseppe, e “Umani a Milano”.
“Ogni anno nel nostro reparto sono circa 1.400 le nuove vite in arrivo, che portano con sé altrettante storie, all’apparenza simili, in realtà tutte uniche, sempre nuove e irripetibili – commenta Stefano Bianchi, Direttore del Dipartimento materno-infantile dell’Ospedale San Giuseppe -. Tutto il nostro staff opera secondo la convinzione che la qualità della vita fisica e intellettiva dell’adulto dipenda in gran parte non solo dall’assistenza ricevuta alla nascita, ma anche da quella data alla madre e alla famiglia durante tutta la gravidanza. Un’assistenza che non si concentra solo sul piano meramente clinico ma sa abbracciare anche la sfera emozionale, per far sì che tutte queste ‘storie in attesa di nascere’ possano iniziare nel migliore dei modi”.
il Dipartimento Materno-Infantile è da sempre un fiore all’occhiello dell’Ospedale San Giuseppe, lo storico ospedale a due passi dalla Basilica di Sant’Ambrogio, dove sono nate intere generazioni di milanesi.
L’équipe che si prende cura di questo delicato periodo della vita femminile è formata da: medici specialisti con comprovata esperienza nel campo della ginecologia, fisiopatologia della gravidanza, ostetricia e neonatologia; ostetriche; infermiere pediatriche specializzate nell’assistenza al neonato con problemi e puericultrici. Una vera e propria squadra di esperti, a disposizione della salute della mamma e del bambino. A questo proposito il Dipartimento è dotato anche di un’Unità di Fisiopatologia della gravidanza, diretta dal dottor Emilio Grossi, per la gestione di gravidanze problematiche (es. minaccia d’aborto o di parto prematuro, deficit di accrescimento, diabete, patologie autoimmuni, ipertensione arteriosa, tumori).
Presso il San Giuseppe, tutti i neonati vengono sottoposti, così come stabilito dalla legge, allo screening metabolico, eseguito per poter identificare alcune rare malattie congenite (ipotiroidismo, fenilchetonuria, fibrosi cistica, sindrome adrenogenitale) che, se non diagnosticate e curate precocemente, possono compromettere seriamente lo sviluppo del bambino. La Regione Lombardia propone inoltre uno screening metabolico “esteso”, per la ricerca di oltre 40 rare patologie ereditarie congenite: tale screening è del tutto gratuito e viene effettuato sullo stesso prelievo di sangue. Ad almeno 48 ore dalla nascita, viene eseguito a tutti i neonati un esame di screening dell’udito (otoemissioni), per la ricerca precoce dei difetti uditivi congeniti. Viene infine eseguito il controllo del “riflesso rosso” essenziale per il precoce riconoscimento di situazioni che potenzialmente possano mettere in pericolo la vista.
da ilpuntosalute | 17 Apr, 2019 | Informazioni mediche
Con un video visto da più di 90mila persone e numerosi commenti e interazioni la campagna social #lospedalechevorrei promossa da ACTO racconta un vissuto in gran parte positivo.
Ma c’è ancora molto da fare: 2 donne su 5 non hanno ricevuto sufficiente assistenza psicologica e 1 donna su 3 si è sentita molto sola al momento della diagnosi
Roma, 3 aprile 2019 – Per una donna colpita da tumore ovarico la scelta dell’ospedale dove farsi curare è una vera e propria scelta per la vita.
ll tumore ovarico è la più grave e complessa neoplasia ginecologica che interessa 50 mila donne italiane e che registra 5.200 nuove diagnosi/anno con una sopravvivenza a 5 anni solo del 40% negli stadi avanzati. Proprio per la sua complessità il tumore ovarico dovrebbe essere curato solo in ospedali attrezzati per affrontare la malattia da tutti i punti di vista (diagnostico, chirurgico, terapeutico, infermieristico e psicologico-assistenziale) e capaci di rispondere a tutte le esigenze delle pazienti e dei loro familiari.
Ma le cose stanno davvero così? Cosa pensano le pazienti degli ospedali in cui sono state curate? Come li valutano?
“Per saperlo abbiamo lanciato su Facebook la campagna #lospedalechevorrei – racconta Nicoletta Cerana, presidente di Acto, la rete nazionale di associazioni pazienti impegnata dal 2010 nella lotta contro questa neoplasia – “Con poche e semplici domande, abbiamo indagato il vissuto delle pazienti in ospedale durante l’intero percorso di cura, dalla diagnosi alla terapia fino al periodo di follow up. Non è stato un sondaggio, ma piuttosto un colloquio guidato per capire come rendere “l’ospedale più ospitale”.
La campagna è stata seguita da oltre 90 mila persone e 150 donne hanno compilato il questionario fornendo le valutazioni e i suggerimenti che sono stati presentati oggi al Senato nel corso di un incontro cui hanno preso parte Istituzioni, esponenti della comunità medico-scientifica e del mondo advocacy.
La grande maggioranza (70-80%) delle donne si è dichiarata soddisfatta delle cure ricevute e ha giudicato positivamente la propria esperienza in ospedale: “… sono stata accolta come in una grande famiglia, seguita amorevolmente da tutta l’équipe che ringrazio di tutto cuore”, “… grande umanità, delicatezza e comprensione da parte di tutti coloro che mi hanno seguita”.
Da queste esperienze – commenta Silvia Gregory, referente di Acto Roma, parlando a nome delle pazienti – si capisce che la professionalità è alta a conferma dell’eccellenza oncologica del nostro Paese, ma emerge anche la richiesta ai professionisti sanitari di una maggiore umanità e attenzione ai bisogni psicologici”.
Infatti 1 donna su 3 ha dichiarato di sentirsi molto sola al momento della diagnosi e 2 donne su 5 hanno dichiarato di non aver ricevuto consigli su come tornare, dopo le cure, alla vita di tutti i giorni. Una ripresa molto faticosa, soprattutto quando non si è più come prima. Dunque dalla campagna Acto emerge che c’è ancora tanto da fare soprattutto nell’area del supporto psicologico e dell’assistenza nel post cura.
“… Vorrei che i medici ti ascoltassero, capissero il dolore che hai.” “… finché ero in un programma di ricerca tutto era perfetto ma, con la recidiva, fuori dal programma sei completamente abbandonata”, “…ci sono stati alcuni episodi nei quali mi sono sentita poco seguita” o, ancora, “… non sempre sono stata accompagnata in modo adeguato” – hanno commentato alcune partecipanti al sondaggio.
“Rimane molto da fare per quel 20% di pazienti che non vede i propri bisogni soddisfatti” ribadisce Domenica Lorusso del Dipartimento di Ginecologia Oncologica, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS – “e probabilmente questo può essere fatto implementando l’organizzazione e includendo altre figure professionali nel percorso di cura come psicooncologi e case manager”.
Le pazienti devono sentirsi al centro dell’attenzione –conferma l’Onorevole Rossana Boldi, Vicepresidente della XII Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati – “In primo luogo come persone, non solo come malate, perché la condizione psicologica delle pazienti è importante quanto la terapia”.
La campagna Acto, realizzata con il supporto incondizionato di Clovis Oncology, azienda biofarmaceutica interamente impegnata nella ricerca di soluzioni terapeutiche contro il cancro con terapie target e medicina di precisione, è un ulteriore passo avanti nel percorso di ascolto delle pazienti che Acto sta compiendo dal 2010 per poter comprendere a fondo i reali bisogni delle donne malate e rispondere con iniziative concrete.
Per questo, dal mondo digitale la campagna si sposterà nel mondo reale, per portare le esperienze delle pazienti nei centri specializzati di tutta Italia e discutere insieme ai medici e alle Istituzioni come colmare i bisogni insoddisfatti e rendere così l’ospedale davvero “più ospitale”.
“L’ambiente ospedaliero è il risultato di diversi fattori: organizzazione efficiente, preparazione del personale medico e paramedico, attrezzature moderne ma anche atteggiamenti umani” – conclude la Sen. Maria Rizzotti, Componente della XII Commissione permanente Igiene e Sanità del Senato della Repubblica – “La politica deve dare certamente il proprio contributo favorendo il consolidarsi di condizioni migliori negli ambiti ospedalieri, incoraggiando iniziative, regolamenti, corsi di formazione, sistemi di auditing e altro ancora che consentano di misurare – per quanto possibile – la qualità della risposta sanitaria offerta, considerata nel suo insieme e non solo dalla prospettiva delle sole terapie”.
Per ulteriori informazioni, contattare la redazione ALTIS ai seguenti recapiti:
Marcello Portesi, 348-9997009
Francesca Portesi, 02-4953830
Fondata nel 2010, Acto onlus – Alleanza contro il Tumore Ovarico è la prima rete nazionale di associazioni pazienti impegnata nella lotta contro il tumore ovarico. Presente in Piemonte, Lombardia, Lazio, Campania e Puglia ha la missione di migliorare la conoscenza della malattia, stimolare la diagnosi tempestiva, promuovere l’accesso a cure di qualità, sostenere la ricerca scientifica e tutelare i diritti delle donne malate e dei loro familiari.
da ilpuntosalute | 4 Apr, 2019 | Informazioni mediche
La musica, da sempre, unisce.
In questo caso mi sono resa conto che la musica avrebbe potuto raccontare le storie di queste coraggiosissime donne, e allo stesso tempo fortificarle.
Credo che vedere le loro esperienze in musica le renderà orgogliose e darà loro la forza necessaria!
Il lavoro di noi artisti è quello di centrare il punto, l’obiettivo e di arrivare a più persone possibili.
Mi aspetta una grande sensibilità da questi “giovani della musica”.
Mi auguro con tutta me stessa che possano cogliere tutte le sfumature che abbiamo colto noi nei vari incontri che abbiamo sostenuto.
Li sentiremo, capiremo chi sarà più adatto, e porteremo alla finale chi secondo noi ha scritto meglio. Queste le parole della nota cantautrice Noemi.
“Voltati. Guarda. Ascolta. Le donne con tumore al seno metastatico” nel suo terzo anno dà voce alle donne che ogni giorno combattono con grande coraggio contro questa malattia attraverso uno dei canali più potenti, la musica. Nasce “Play! Storie che cantano”, un contest musicale online aperto ad artisti che potranno partecipare con canzoni ispirate alle storie delle pazienti raccolte nel corso delle campagne 2017 e 2018. Con la partecipazione straordinaria di una star del pop italiano: Noemi, coinvolta in veste di testimonial, coach, performer e giurata. Nel mese di ottobre, poi, si terrà l’evento Live!, un concerto gratuito aperto al pubblico, con la partecipazione di Noemi, dedicato alla presentazione dei 5 brani finalisti e alla proclamazione del vincitore, che sarà selezionato da una giuria tecnica e dalle pazienti.
TUMORE AL SENO METASTATICO
Il carcinoma della mammella, più comunemente noto come tumore al seno, è dovuto alla moltiplicazione incontrollata di cellule della ghiandola mammaria che si trasformano in cellule maligne.
Il tumore al seno può essere classificato in 4 categorie o stadi, dal punto di vista della sua evoluzione:
- Stadio 1 o stadio iniziale: sono classificati come stadio 1 i carcinomi con un diametro inferiore ai 2 centimetri la cui estensione è limitata al seno e non c’è coinvolgimento dei linfonodi.
- Stadio 2 o stadio iniziale: rientrano in questa categoria i tumori diffusi nelle immediate vicinanze del seno, raggiungendo ad esempio i linfonodi ascellari (stadio iniziale).
- Stadio 3 o localmente avanzato: sono tumori con dimensioni variabili che hanno raggiunto i tessuti sottostanti del torace o i linfonodi sotto la clavicola, accanto al collo o sotto il braccio (localmente avanzato).
- Stadio 4 o stadio avanzato: sono quei tumori, anche definiti metastatici, che dalla sede primaria, il seno, si sono diffusi in altre parti del corpo attraverso le vie linfatiche e i vasi sanguigni. Gli organi più colpiti sono le ossa, i polmoni, il fegato e il cervello.
LA TIPIZZAZIONE MOLECOLARE
I carcinomi della mammella possono essere classificati in base alla presenza o assenza di determinati recettori espressi dalle cellule tumorali come segue:
- HR positivi (hormone receptors) se possiedono recettori per gli ormoni femminili e possono essere estrogeno-positivi (ER+) e progesterone-positivi (PgR);
- HER2 positivi (da human epidermal growth factor receptor 2) se esprimono recettori di tipo 2 del fattore di crescita epidermico umano;
- triplo negativi nel caso in cui non presentino nessuno dei tre recettori.
I tumori al seno HR-positivi possono essere ulteriormente distinti in luminali A, neoplasie con espressione dei recettori ormonali a prognosi favorevole, e luminali B, neoplasie che, sebbene posseggano l’espressione dei recettori ormonali, presentano un rischio di recidiva più elevato.
FATTI E NUMERI
- Il tumore al seno è il tumore più comune nelle donne con circa 1 milione 700 mila nuovi casi diagnosticati in tutto il mondo ogni anno.
- Fino al 30% delle donne con diagnosi iniziale di tumore al seno in stadio precoce potrà sviluppare un tumore al seno metastatico.
- In Italia la sopravvivenza da carcinoma mammario avanzato o metastatico è molto aumentata, passando dai 15 mesi degli anni ’70 ai 58 mesi di inizio Duemila (fonte AIOM-AIRTUM).
- Il 5-10% delle donne si presenta alla diagnosi iniziale con malattia primaria metastatica.
- Nel 2015, sono stati stimati globalmente000 decessi causati da tumore al seno, oltre il 90% dei quali è stato causato dalla diffusione della malattia alle altre parti del corpo (metastasi).
FATTORI DI RISCHIO
I fattori di rischio che riguardano il tumore al seno, compresa la malattia metastatica, sono:
- l’età (>55 anni)
- una diagnosi precedente di tumore al seno
- la storia familiare
- le mutazioni genetiche come BRCA1 e BRCA2.
I meccanismi di progressione e di metastatizzazione non sono ancora chiariti e non si sa se e quanto gli stessi fattori di rischio possano avere un effetto sul rischio di progressione o di metastasi.
da ilpuntosalute | 2 Apr, 2019 | Informazioni mediche
Nell’immaginario collettivo la frattura è percepita come un evento improvviso, legato per lo più a una dinamica traumatica che necessita di un trattamento immediato.
Questa percezione rispecchia solo in parte l’eterogeneità dello scenario clinico, in cui una frattura potrebbe essere la conseguenza di una condizione di perdita della massa e della robustezza ossea così avanzata da verificarsi, nei casi più gravi, in maniera spontanea.
Proprio in tale contesto si declina il concetto di fragilità: una condizione subdola, ad elevato rischio, con forte probabilità di essere sottovalutata, che richiede invece la massima attenzione non soltanto per le sue ripercussioni sullo stato di salute ma anche per i suoi risvolti sociali, economici e assistenziali.
Il comun denominatore, che costituisce la predisposizione alle fratture da fragilità, è l’osteoporosi: una malattia multifattoriale caratterizzata da riduzione della massa ossea e da alterazioni dell’architettura scheletrica, che viene distinta in primitiva, ossia non attribuibile a una causa specifica, come per esempio quella post-meno- pausale e senile, osteoporosi secondaria, legata ad altre patologie o a farmaci che promuovono demineralizzazione ossea (per esempio i cortico- steroidi, che notoriamente favoriscono il riassorbimento osseo).
Nella fascia d’età superiore ai 50 anni, l’osteoporosi interessa 4 milioni di italiani al di sopra dei 50 anni d’età, di cui l’80 per cento donne, e il rischio di fratture da fragilità in Italia è stimato nel 34 per cento nel sesso femminile e nel 16 per cento in quello maschile. Nel 2017 le fratture da fragilità stimate sono state 560mila e si prevede un incremento del 26% della loro incidenza nel prossimo decennio.
A rispondere ad alcune domande Francesco Falez, Direttore dell’Unità operativa complessa di Ortopedia e Traumatologia dell’ospedale Santo Spirito di Roma e Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia.
Le fratture da fragilità fanno sempre rima con l’osteoporosi?
Sicuramente c’è un legame che possiamo definire assoluto tra le fratture da fragilità, che sono espressione diretta della riduzione della capacità meccanica dell’osso conseguente all’osteoporosi, e l’osteoporosi stessa.
Ciò che fino ad oggi abbiamo di fatto analizzato come alterazione del metabolismo, del turnover metabolico dell’osso, oggi si estrinseca nelle fratture da fragilità e quindi l’attenzione si è di fatto spostata da quella che era una condizione patologica e sistemica verso una condizione che direi essere conseguenza diretta della osteoporosi.
Quali e quante sono le cause che determinano la fragilità ossea e, quindi, le fratture da fragilità?
Sicuramente tra le cause delle fratture possiamo annoverare tutte quelle condizioni che alterano il normale turnover osseo. Quindi, se siamo di fronte a un’osteoporosi endocrina, tra queste cause possiamo registrare tutte le malattie che hanno la possibilità di alterare questo metabolismo: si va dalle malattie oncologiche alle terapie con anabolizzanti e, dunque, con corticosteroidi.
Sono cause solo patologiche o sono indotte anche da altre condizioni?
L’osteoporosi di fatto è una patologia, ma è una patologia quasi fisiologica perché avviene a causa di processi di invecchiamento. In realtà, è un po’ un controsenso dire che si tratta di una patologia, perché lo è in quanto determina alcune situazioni patologiche. Il fatto è che non si può cercare di bloccare l’avanzare degli anni, anche se questa è la vera situazione che deter- mina il reale problema della frattura da fragilità. Oggi però ci si sta finalmente chiedendo: come riusciamo a ridurre la percentuale delle fratture di fragilità nell’osteoporosi? La risposta è che lo si può fare agendo in maniera farmacologica su qualcosa che non si può evitare.
Nel mondo clinico-scientifico che percezione c’è del rischio di fratture da fragilità ossea? È un tema oggetto di confronto e riflessione o è ancora un tema ai margini dell’interesse clinico?
L’attenzione su questi argomenti è elevatissima e va in maniera trasversale dai reumatologi agli endocrinologi, ai medici di base, agli ortopedici. Finalmente ci si è accorti che quello che poteva essere considerato come un grande imbuto finiva in un collo di bottiglia, ovvero nella frattura vera e propria. Poi che si tratti di frattura del femore, dell’omero, delle vertebre o di altro ancora, sempre dall’ortopedico il paziente finisce. Oggi la figura dell’ortopedico sta assumendo un ruolo diverso nel mondo clinico ed assistenziale. Prima era uno degli attori, oggi è l’attore principale.
Se fossero disponibili analisi e nuovi studi prospettici di economia sanitaria, che tengano conto delle dinamiche socio-demografiche in atto e che siano capaci di dare una dimensione vera ai costi socio-sanitari che a queste si accompagnano, si potrebbe otte- nere un’attenzione maggiore sul piano delle scelte di politica sanitaria?
Ci sono importanti studi, sia economici che demografici, che ci parlano d’innalzamento dell’età media dei pazienti e, insieme, dell’allungamento della vita. Inevitabilmente queste situazioni fanno aumentare percentualmente i numeri della popolazione affetta da osteoporosi. La conseguenza diretta è che queste persone devono essere curate.
Questi studi aiutano a tenere alta l’attenzione che già c’è a livello clinico ma la situazione, di contro, risulta ancora deficitaria a livello istituzionale dove l’osteoporosi ancora non è vista come l’infarto, come i tumori o come altri mali. La percentuale delle morti conseguenti alle fratture da fragilità è però assolutamente sovrapponibile alle morti da infarto. Di prevenzione di infarto si parla spesso e ovunque, a livello istituzionale, di prevenzione delle fratture da fragilità no. Parliamo di percentuali che si aggirano sul 30 per cento a sei mesi dall’evento, sono numeri che dovrebbero fare comunque riflettere.
La comunità clinico-scientifica che posizione ha verso forme di organizzazione evolute quali i modelli Hub&Spoke o le reti di patologia?
Oggi ci stiamo organizzando anche in Italia con centri nati come centri dedicati al trattamento dell’osteoporosi ma che si sono trasformati e stanno sempre più cambiando.
Ovviamente c’è ancora grande necessità di metterli sempre più in rete.
I medici di medicina generale quale contributo in più potrebbero offrire rispetto a oggi, da un lato, come sensori precoci di un problema e, dall’altro, per una gestione dei pazienti più avveduta ed efficace a diagnosi avvenuta?
Il ruolo dei medici di medicina generale è fondamentale non solo come prima diagnosi, ma anche per evitare i secondi eventi che sono altrettanto importanti nella cura del paziente affetto da una frattura di fragilità. E poi anche per controllare che il percorso terapeutico sia osservato dai pazienti stessi.
LA PREVENZIONE:
Per la prevenzione della patologia è importante sviluppare programmi di prevenzione primaria che promuovano stili di vita più corretti come l’alimentazione bilanciata, l’esecuzione di una regolare attività fisica, l’astensione dagli alcolici e dal fumo, terapie farmacologiche in grado di inibire il riassorbimento dell’osso o stimolarne la crescita.
La prevenzione secondaria mira invece a una diagnosi precoce della frattura da fragilità e alla tempestiva gestione del paziente per ridurre il rischio di andare incontro ad una successiva frattura: dovrebbe articolarsi in programmi integrati, coordinati all’interno di Unità per la Continuità Assistenziale per le Fratture da Fragilità, che includono corretti stili di vita, esercizio fisico, integrazione di calcio e Vit D e trattamento farmacologico con farmaci che agiscono inibendo il riassorbimento dell’osso o stimolandone la formazione (presto saranno disponibili innovative soluzioni farmacologiche che permetteranno di ottenere contemporanemente il duplice effetto, antiriassorbitivo e anabolico dell’osso e che per questo offriranno al clinico un nuovo e rivoluzionario paradigma per il trattamento di questa patologia), tenendo conto, specie nel paziente anziano, della tipica complessità associata alle comorbilità e alla polifarmacoterapia.
IL MANIFESTO
Dati e considerazioni queste che, su iniziativa della rivista di politica sanitaria Italian Health Policy Brief, hanno indotto 6 società medico-scientifiche e ben 15 associazioni di pazienti a dar vita a FRAME®, un’alleanza finalizzata al coinvolgimento della classe politica e delle istituzioni, affinché adottino scelte di politica sanitaria e adeguate iniziative che consentano, attraverso nuovi modelli gestionali, di prevenire e contrastare efficacemente le fratture da fragilità. Un’alleanza che ha anche prodotto un Manifesto Sociale nel quale sono state raccolte le istanze di tipo sanitario e le proposte.
“Io sono un convinto sostenitore della collaborazione tra le associazioni di pazienti per quelle che sono esigenze che io definisco transpatologiche – precisa Salvo Leone, Presidente di EFCCA (European Federation of Crohn’s & Ulcerative Colitis Association) e portavoce delle associazioni pazienti che hanno aderito all’alleanza FRAME® -. Mi fa piacere pensare che ci sia la possibilità di riunire attorno a un tavolo tutte le organizzazioni che hanno interesse per quanto riguarda la fragilità ossea e quindi sviluppare insieme dei progetti concreti mirati alla soluzione di gravi problemi sanitari”.
da ilpuntosalute | 2 Apr, 2019 | Informazioni mediche
MoMeC, Roma 4 aprile 2019
PROGRAMMA:
17.10 – 17:20
Introduzione
Moderatori
17.20 – 17.40
Il PDTA come strumento operativo del governo clinico basato sulla centralità del paziente e della sua malattia: il confronto tra diversi PDTA e i criteri da prendere in considerazione per il loro aggiornamento
Cristina Mussini
17.40 – 18.00
Come implementare i modelli organizzativi atti a garantire la qualità delle cure e della presa in carico del paziente
Marco Borderi
18.00 – 18.20
Come ottimizzare e coordinare gli interventi di gestione per armonizzare le modalità prescrittive e monitorarne l’appropriatezza ai fini di una razionalizzazione delle principali voci di spesa
Francesco Saverio Mennini
18.20 – 18.40
L’infezione da HIV e le co-infezioni da HBV e HCV nelle popolazioni fragili dei detenuti e dei migranti: la necessità di una sorveglianza a livello nazionale
Stefano Buttò
18.40 – 19:00
Quarto 90: la Legge 135 fra indicatori di appropriatezza e qualità di vita del paziente
On. Ubaldo Pagano
19.00 – 19:20
Educazione e Informazione per una società inclusiva: l’impegno dell’Intergruppo del Parlamento
On. Fabiola Bologna
19:20 – 19.40
Discussione e Conclusioni
Moderatori: Marco Borderi, Specialista in Malattie Infettive – Marco Giorgetti, Managing Director Value Relations
Relatori:
Ubaldo Pagano, Membro XII Commissione Affari Sociali, Camera dei Deputati
Fabiola Bologna, Membro XII Commissione Affari Sociali, Camera dei Depuati
Stefano Buttò, Senior Scientist, Centro Nazionale per la Ricerca su HIV/AIDS, ISS
Francesco Saverio Mennini, Direttore CEIS-EEHTA, Università di Roma Tor Vergata
Cristina Mussini, Direttore Clinica Malattie Infettive – Policlinico di Modena
Marco Borderi, Unità Operativa Malattie Infettive, Azienda Ospedaliero – Universitaria di Bologna, Policlinico Sant’Orsola – Malpighi
da ilpuntosalute | 28 Gen, 2019 | Informazioni mediche
Approssimativamente 350.000 persone nel mondo sono affette da leucemie. Di queste il 25% hanno la Leucemia Mieloide Acuta (LMA), un tumore relativamente raro. In Italia si stimano circa 3.200 nuovi casi ogni anno.
Adesso i pazienti affetti da LMA hanno un’arma in più per combattere la malattia: Midostaurina, un inibitore orale multi-target di diverse chinasi, incluse FLT3 e KIT, che contribuisce a regolare molti processi cellulari essenziali, interrompendo la capacità delle cellule tumorali di crescere e moltiplicarsi.
“L’introduzione di midostaurina nel nostro Paese rappresenta un notevole passo avanti – afferma Giuseppe Rossi, Direttore della Struttura Complessa di Ematologia e del Dipartimento di Oncologia Clinica degli Spedali Civili di Brescia –. Fino al 2017 la terapia per LMA è sempre stata costituita dalla chemioterapia e dal trapianto di midollo osseo. Ora possiamo usufruire del primo farmaco che lavora specificatamente solo sulle cellule leucemiche di questo tumore particolarmente aggressivo. I benefici clinici della midostaurina, in aggiunta alla chemioterapia, sono evidenti soprattutto per i pazienti la cui leucemia è caratterizzata dalla mutazione del gene FLT3, contro la quale midostaurina è selettivamente diretta”.
L’approvazione del farmaco si basa sui dati dello studio clinico RATIFY, il più vasto studio clinico condotto finora nei pazienti nuova diagnosi con mutazione FLT3 con questo specifico tipo di LMA e i suoi risultati sono stati recentemente pubblicati sul New England Journal of Medicine (NEJM).
“Per questi pazienti la nuova terapia rappresenta il primo importante sviluppo nel trattamento dopo oltre 25 anni di latenza terapeutica. Siamo in presenza di un miglioramento della durata mediana di vita da 25 a 70 mesi con una riduzione del rischio di morte del 23%. Il 10% dei pazienti in più rispetto al passato può beneficiare della guarigione definitiva”, precisa Giuseppe Rossi.
Da oggi midostaurina è rimborsato in Italia anche per la terapia di una malattia rara: la mastocitosi sistemica (MS) avanzata. Il nuovo farmaco è unico trattamento per tre sottotipi di MS, noti collettivamente con la definizione di MS avanzata, tutte patologie caratterizzate da un’aspettativa di vita limitata e da scarse opzioni terapeutiche.
Per la MS avanzata, l’approvazione è basata su due studi multicentrici a singolo braccio, condotti in aperto, tra i quali uno studio di Fase II, il più vasto studio prospettico mai condotto in questa rara patologia, i risultati del quale sono stati anch’essi pubblicati sul NEJM.
Midostaurina è approvato per l’uso in combinazione con terapia di induzione standard con citarabina e daunorubicina e chemioterapia di consolidamento con citarabina a elevato dosaggio, e per i pazienti con risposta completa, seguita da un trattamento di mantenimento con midostaurina in monoterapia per i pazienti adulti con Leucemia Mieloide Acuta (LMA) di nuova diagnosi positivi per la mutazione FLT3. È stato inoltre approvato l’uso in monoterapia per il trattamento di pazienti adulti con mastocitosi sistemica aggressiva (MSA), con mastocitosi sistemica con neoplasia ematologica (SM-AHN, systemic mastocytosis with associated hematological neoplasm) e con leucemia mastocitaria.
Per meglio comprendere la LMA, ecco un’intervista a Felicetto Ferrara, Divisione di Ematologia, Ospedale Cardarelli di Napoli.
Ci può spiegare cos’è la Leucemia Mieloide Acuta e come si manifesta?
La LMA è una malattia tumorale del sangue caratterizzata da un’alterata proliferazione delle cellule staminali emopoietiche. La conseguenza è un accumulo di cellule patologiche (blasti) nel midollo osseo e nel sangue periferico che determina una estremamente ridotta produzione di cellule mature del sangue (Granulociti, Eritrociti e Piastrine). I sintomi più frequenti, dovuti all’espansione del clone leucemico, sono febbre, astenia, emorragie e dolori ossei. In casi eccezionali, la malattia può nascere fuori dal midollo osseo (cute, sistema nervoso centrale, tratto-gastrointestinale) e viene definita “sarcoma granulocitico).
Cosa si sa oggi delle cause e dei fattori di rischio della LMA?
Il fumo e l’esposizione a certe sostanze chimiche come il benzene e i suoi derivati utilizzati nell’industria chimica aumentano il rischio di sviluppare LMA. Anche alcune terapie oncologiche possono aumentare il rischio: è il caso di alcuni farmaci utilizzati per la chemioterapia (alchilanti e le epipodofillotossine) di diversi tumori solidi e delle radiazioni associate alla radioterapia.
Fattori di rischio addizionali sono il sesso maschile e l’età superiore ai 60 anni. Infatti la frequenza di alcune mutazioni genetiche, direttamente correlate allo sviluppo di LMA, aumenta progressivamente nei soggetti anziani. Per lo sviluppo della malattia è necessaria l’interazione di diverse mutazioni, strettamente correlate al controllo della proliferazione e differenziazione emopoietica. Infine, possono aumentare il rischio anche diverse malattie genetiche (anemia di Fanconi, sindrome di Bloom, atassia-telangiectasia, sindrome di Li-Fraumeni, neurofibromatosi, eccetera), alcune anomalie cromosomiche (Sindrome di Down) e anche malattie del sangue quali malattie mieloproliferative croniche e sindromi mielodisplastiche (si parla in questi casi di Leucemie Mieloidi Acute Secondarie).
Quali sono le necessità per i pazienti con leucemia mieloide acuta? Che consigli dare per migliorare la loro qualità di vita?
La necessità più importante per i pazienti con LMA è essere seguiti presso una struttura ematologica specialistica con comprovata esperienza nella diagnosi e terapia della malattia. È indispensabile che il centro assicuri un corretto inquadramento genetico-molecolare della LMA e, possibilmente, sia coinvolto in studi clinici con farmaci innovativi. I consigli ai pazienti sono di riferire al medico tutti i sintomi, anche banali, e di attenersi strettamente alle raccomandazioni durante il decorso intra-ed extra-ospedaliero. La LMA va vissuta come una malattia guaribile e, quindi, anche gli effetti collaterali della terapia vanno inseriti in questo contesto.
Nel corso della terapia quanto è importante l’alleanza terapeutica tra medico e paziente?
Il rapporto medico-paziente è fondamentale per una corretta gestione della malattia che può durare anni. Il paziente va informato il più possibile, ma sempre nel contesto del suo livello culturale, socio-economico ed emotivo. Vi è molta variabilità individuale per quanto riguarda il livello di conoscenza da parte del paziente e ciò va compreso e tenuto presente.
da ilpuntosalute | 24 Gen, 2019 | Informazioni mediche
Non tutti i probiotici sono uguali: in futuro la loro efficacia a livello profilattico e terapeutico dipenderà sempre più dalla qualità del prodotto e dai ceppi selezionati.
Negli ultimi anni, si è studiata l’interazione tra microbiota e sistema immunitario per capire come prevenire e trattare malattie infettive, allergiche o infiammatorie. Le evidenze scientifiche hanno confermato che i probiotici possono avere effetti immunomodulatori e/o immunostimolatori, secondo i ceppi batterici utilizzati; ogni ceppo possiede caratteristiche e proprietà specifiche ed esercita, necessariamente, un’azione diversa sulle varie patologie e sul loro decorso
I probiotici (dal greco “pro-bios”, a favore della vita) sono, secondo la definizione condivisa da FAO e OMS, “microrganismi vivi che, somministrati in quantità adeguate, apportano benefici alla salute dell’ospite”. Si tratta di batteri “buoni” che, una volta ingeriti, sono in grado di sopravvivere attraverso le barriere stomaco-duodeno-intestino tenue e raggiungere la mucosa intestinale per colonizzarla, diventando parte integrante del microbiota. I più utilizzati appartengono ai generi Lactobacillus e Bifidobacterium. Non vanno confusi con i semplici fermenti lattici, batteri che si limitano a fermentare e digerire il lattosio ma non rimangono vivi all’interno del nostro corpo.
L’effetto dei probiotici è, oltre che ceppo dipendente, dose dipendente. La quantità minima sufficiente per ottenere una temporanea colonizzazione dell’intestino da parte di un ceppo di fermento lattico è di almeno 1 miliardo di cellule vive per ceppo e per giorno.
Il 70% del microbiota si trova nel colon, a stretto contatto con la mucosa intestinale, ma i microrganismi che lo costituiscono sono distribuiti lungo tutto l’apparato digerente, dove si concentrano in modo diverso per quantità e tipologia. In questo “habitat”, il microbiota svolge numerose funzioni vitali: sintetizza sostanze preziose (es. vitamine K e B12), favorisce la digestione, neutralizza molte tossine e agenti cancerogeni, esercita un effetto barriera contro gli agenti patogeni e promuove lo sviluppo del sistema immunitario, interagendo con esso. In particolare, la flora batterica intestinale esercita l’importante ruolo di stimolazione immunologica, essenziale per assicurare all’organismo una corretta capacità di difesa.
Il microbiota si sviluppa nei primi giorni di vita in funzione del tipo di parto, del contatto con la mamma, dell’allattamento. Nel corso dei primi 3 anni, la composizione dei microrganismi si stabilizza e, in condizioni fisiologiche, tende a rimanere costante in età adulta, ma possono intervenire diversi fattori in grado di modificarne il delicato equilibrio. Una dieta ricca di cibi grassi e alimenti raffinati, ad esempio, l’uso/abuso di antibiotici e farmaci come gli antinfiammatori, i PPI (inibitori di pompa protonica) o i chemioterapici, una ridotta attività fisica favoriscono la selezione di ceppi batterici meno protettivi, o addirittura dannosi, per la salute umana e producono metaboliti tossici.
L’alterazione della flora batterica (disbiosi) può compromettere la funzionalità intestinale, causando una serie di disturbi come meteorismo, diarrea, dolore e gonfiore addominale accompagnati da uno stato di malessere generale, stipsi, colite, fino all’insorgenza di infezioni batteriche, reflusso, allergie, ipovitaminosi, malattie autoimmuni e tumori del colon.
Da qui si comprende l’importanza di ripristinare l’equilibrio del microbiota, mediante un opportuno trattamento basato sull’impiego di specifici probiotici per la corretta ricolonizzazione dell’intestino.
“Stiamo assistendo a un’importante evoluzione nel modo di concepire la cura – spiega Emanuele Salvatore Aragona, Responsabile del Centro di Medicina Rigenerativa, Istituto Clinico Humanitas Mater Domini di Castellanza (VA) -. Inizialmente vi erano terapie meramente soppressive, con l’impiego di farmaci come antibiotici o antinfiammatori. I probiotici hanno poi introdotto la ‘competizione fisiologica’ ma aspecifica. Oggi, le formulazioni più recenti permettono un ulteriore passo avanti: agiscono per competenza d’organo, con un’azione mirata sui ceppi patogeni da contrastare. La loro competizione nei confronti dei batteri è quindi ‘su misura’, modulando la risposta dell’organismo nel rispetto della biologia del paziente. Un approccio che potrà aprire nuove prospettive terapeutiche nel trattamento delle infezioni batteriche, considerando che l’aumento della resistenza agli antibiotici renderà questi farmaci, in mancanza di nuovi antimicrobici, delle armi sempre più spuntate”.
Dall’azienda italiana Aurora Biofarma nasce una linea di probiotici che agisce per competenza d’organo e composizione ceppo-specifica, con una serie di prodotti ritagliati su misura per il paziente affetto da patologie legate a disbiosi di varia origine.
Ogni organo, dall’intestino allo stomaco, ha il suo microbiota: tali probiotici hanno un’azione mirata su un preciso organo, perché contengono gli specifici ceppi batterici per il benessere di quest’ultimo.
- Probiotici:
- 1) Abiflor Baby® per il benessere intestinale nei bambini fin dal primo giorno di vita, in caso di gastroenterite, coliche, stipsi, disbiosi da antibiotici Lactobacillus rhamnosus LR04 e Lactobacillus reuteri LRE02
- 2) Abincol® per riequilibrare la flora batterica del colon, in caso di disbiosi di varia natura
Lactobacillus plantarum LP01, Lactobacillus delbrueckii LDD01, Lactococcus lactis subsp. cremoris LLC02
- 3) Abivisor® studiato per agire nello stomaco e rigenerare una barriera gastrica alterata, prevenendo le infezioni gastrointestinali:
Lactobacillus rhamnosus LR04
Lactobacillus pentosus LPS01
Lactobacillus plantarum LP01
Lactobacillus delbrueckii LDD01
UN “POOL DI CEPPI ESPERTI” PER RIEQUILIBRARE LA FLORA INTESTINALE
L’alterazione nella composizione del microbiota intestinale può dipendere da patologie (gastroenteriti, malattia diverticolare, colite ulcerosa, malattia di Crohn), dall’utilizzo di farmaci (antibiotici, immunosoppressori, anticoncezionali) ed è molto frequente in pazienti che hanno subìto interventi chirurgici gastro-intestinali. “Altra causa di disbiosi poco nota, e quindi trascurata, è il lavaggio cui è sottoposto il colon prima di una colonscopia – illustra Luigi Pasquale, Presidente della Società Italiana di Endoscopia Digestiva (SIED) -. Un recente studio americano ha rilevato un alto tasso d’infezioni, a carico del sistema gastro-intestinale e a livello polmonare, fino a un mese dalla procedura endoscopica. Un altro studio condotto da un gruppo italiano ha evidenziato invece come la flora intestinale, dopo il lavaggio, vada incontro all’aumento di enterobatteri ‘cattivi’ e alla riduzione di lattobacilli ‘buoni’. Abincol® (l’unione di Lactobacillus plantarum LP01, Lactobacillus delbrueckii LDD01 e Lactococcus lactis subsp. cremoris LLC02) è stata sviluppata per agire in modo mirato proprio sul colon. Grazie a un pool di ceppi probiotici la cui efficacia è stata scientificamente comprovata è in grado di: ripopolare il colon con i lattobacilli deficitari, inibire la crescita degli agenti patogeni e attivare il sistema immunitario. L’esclusiva tecnologia della microincapsulazione, inoltre, rende i ceppi resistenti agli acidi gastrici e li fa arrivare integri e vitali all’intestino, con una resa 5 volte superiore ai ceppi equivalenti non microincapsulati”.
DUE CEPPI, APPARTENENTI ALLE SPECIE PIÙ STUDIATE IN PEDIATRIA, ASSOCIATI IN UN UNICO PROBIOTICO
Per le loro proprietà, i probiotici hanno aperto nuove prospettive in numerose aree terapeutiche, anche in ambito pediatrico. “Prove della loro efficacia sono state fornite per la prevenzione e la cura delle gastroenteriti acute, molto diffuse in età infantile, soprattutto quella da Rotavirus – evidenzia Mariella Baldassarre, Dipartimento di Scienze Biomediche e Oncologia Umana, Sezione di Neonatologia e TIN, Università “Aldo Moro” di Bari -. Altre loro aree di applicazione sono, ad esempio, la diarrea da antibiotici, la cui incidenza nei piccoli pazienti varia dall’11% al 40% in base all’età, e le coliche infantili, con un effetto diretto sulla motilità intestinale e sulla percezione del dolore. A questo proposito, Abiflor Baby® rappresenta un’interessante novità, poiché associa 2 ceppi batterici, il Lactobacillus reuteri LRE02 e il Lactobacillus rhamnosus LR04[i], che appartengono alle specie più studiate in pediatria. La loro azione sinergica potrebbe essere utile per ripristinare l’equilibrio della flora intestinale sin dai primi giorni di vita, potenziando le difese immunitarie. Può essere prescritto in caso di gastroenteriti acute, coliche, stipsi e disbiosi associata a terapia antibiotica. Due importanti caratteristiche del nuovo probiotico sono la microincapsulazione e il brevetto ‘allergen-free’, che garantisce la totale assenza di sostanze allergizzanti (proteine del latte e della soia, glutine, fruttosio e saccarosio), aspetto quest’ultimo di fondamentale importanza in tutti i bambini e in particolare nel lattante, che ha un sistema immunitario ancora immaturo”.
UN NUOVO PROBIOTICO ATTIVO NELLO STOMACO
Anche lo stomaco ha un suo specifico microbiota che, a causa di diversi fattori: stile di vita, stress, età avanzata, fumo, alcol ma anche farmaci come antibiotici, chemioterapici o medicinali per il trattamento dell’iperacidità gastrica possono andare incontro a disequilibrio. In particolare, gli inibitori di pompa protonica (PPI), diminuendo la quantità di acido cloridrico nello stomaco, indeboliscono la barriera acida che ci difende da microbi pericolosi, i quali possono raggiungere l’intestino, infettandolo (da 3 a 8 volte in più rispetto alla media). “Un recente studio osservazionale ha arruolato volontari sani trattati per 2 settimane con PPI e ha evidenziato un’aumentata proliferazione batterica nei pazienti consumatori di antiacidi a lungo termine e la possibilità di antagonizzarla, utilizzando un gruppo definito di probiotici già testati in laboratorio – spiega Emanuele Salvatore Aragona, Responsabile Centro di Medicina Rigenerativa
Istituto Clinico Humanitas Mater Domini di Castellanza (VA) -. Da questo lavoro, ha preso le mosse una composizione originale di alcuni ceppi di lactobacilli (L. rhamnosus LR04, L. pentosus LPS01, L. plantarum LP01, L. delbrueckii LDD01), oggi alla base di Abivisor®, il nuovo probiotico studiato per agire nello stomaco. Il prodotto contiene inoltre N-aceltilcisteina, mucolitico che disgrega il biofilm batterico, favorendo l’eradicazione dell’Helicobacter pilori. Questo mix si è dimostrato in grado di ridurre significativamente la proliferazione batterica nello stomaco, migliorando la composizione del microbiota gastrico e ripristinando la barriera protettiva contro i batteri nocivi”.
da ilpuntosalute | 11 Set, 2018 | Informazioni mediche
Ogni giorno negli ospedali italiani gli operatori sanitari, in particolare gli infermieri, sono esposti a rischi per la salute, derivanti da ferite da punta o da taglio. Con un’incidenza di circa 1.200.000 infortuni l’anno in Europaein Italia sono circa 130.000 gli incidenti occupazionali a rischio biologico negli operatori sanitari: il 75%, cioè quasi 100 mila esposizioni è rappresentato da punture accidentali con aghi e lesioni da taglienti e il 25% da contaminazioni mucose e cutanee con sangue e altri liquidi biologici.Un incidente su 5 di quelli notificati nel nostro Paese si verifica con un paziente “fonte” portatore di epatite B, epatite C o HIV. In assenza di interventi, nel mondo, ogni anno poco meno di 3 milioni e mezzo di operatori sanitari si espongono per puntura a questi tre virus. Nel nostro Paese solo un ospedale su 2 utilizza dispositivi di sicurezza, quando è previsto l’impiego di aghi cavi per terapie endovenose, e meno di 1 su 2 per il prelievo venoso, le due situazioni di maggiore pericolo di infezione da patogeni trasmessi col sangue.
Secondo l’OMS nel mondo ogni anno si verificano oltre 3.000.000 di incidenti causati da strumenti pungenti o taglienti contaminati con HIV o virus dell’epatite B e C; questi causano il 37% delle epatiti B (pari a circa 66.000 casi), il 39% delle epatiti C (pari circa a 16.000 casi) e il 4,4% delle infezioni da HIV (pari circa a 1.000 casi) contratte dagli operatori sanitari, cioè almeno 83 mila infezioni ogni anno direttamente riconducibili a un’esposizione professionale, di tipo percutaneo, a materiali biologici infetti.
Sono questi i temi più importanti affrontati nel 6° Summitorganizzato dall’European Biosafety Network. L’ European Biosafety Network è un’organizzazione di recente formazione che si propone principalmente di eliminare in tutti i Paesi dell’Unione Europea gli incidenti da punta e da taglio a cui sono esposti tutti gli operatori sanitari.Èstata instituita in seguito all’adozione della nuova Direttiva europea per migliorare la sicurezza degli operatori sanitari e non sanitari e dei pazienti.
“L’infermiere, seguendo il paziente 24 ore su 24, è colui che ha più degli altri a che fare con taglienti e pungenti come gli aghi per le flebo, per la terapia iniettiva e per i prelievi, bisturi, forbici e quanto altro per il cambio delle medicazioni, e purtroppo è ancora elevato il numero di infortuni a rischio biologico derivante da queste ferite: il 63% degli incidenti coinvolgono aghi cavi, la metà dei quali pieni di sangue, il 19% aghi pieni, il 7% bisturi. Circa il 75% delle esposizioni si verifica quindi in relazione a procedure per le quali sono in larga misura disponibili dispositivi intrinsecamente sicuri–precisaBarbara Mangiacavalli, Presidente Federazione Nazionale Collegi Infermieri (IPASVI)–.Possiamo affermare che gli infermieri sono la categoria maggiormente esposta al rischio anche perché rappresentano i 2/3 del totale degli operatori. Recenti dati hanno messo in evidenza che questo tipo di ferite coinvolge proprio questi professionisti tra il 51% e il 58% dei casi, e infatti la maggioranza dei casi di infezione occupazionale osservati si sono verificati in infermieri”.
In occasione del Summit, vengono presentati per la prima volta i risultati dell’Osservatorio Italiano 2017 sulla Sicurezza di Taglienti e Pungenti per gli operatori sanitari,una ricerca realizzata da GfK Italiache vede coinvolti 70 ospedali pubblici, 150 infermieri, 70 Direttori Sanitari, 70 responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione (RSPP), 15 responsabili di Servizio Infermieristico Tecnico e Riabilitativo Aziendale (SITRA) o Direzione Infermieristica Tecnica Riabilitativa Aziendale (DITRA)per capire e analizzare sul campo il comportamento degli operatori.
“Con l’adozione di opportuni piani di prevenzione, formazione e introduzione dei dispositivi sicuri, si potrebbero evitare fino a 53 mila incidenti a rischio biologico, 550.000 ore lavorative perse e 16 mila giornate di malattia–dichiara Gabriella De Carli, infettivologa dello Studio Italiano Rischio Occupazionale da HIVpresso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive ‘Lazzaro Spallanzani’ (IRCCS)–.Per dare un ordine di grandezza, ogni anno in Italia vengono spesi almeno 36 milioni di euro per far fronte alle conseguenze delle ferite accidentali da aghi cavi, cifra che potenzialmente potrebbe aumentare considerando che la metà degli incidenti non viene denunciata dagli operatori, il più delle volte per sottovalutazione del rischio o per modalità di notifica troppo complesse”.
LE DIECI REGOLE D’ORO PER L’INFERMIERE SU COME EVITARE PUNTURE ACCIDENTALI E INFEZIONI OCCUPAZIONALI
- QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, PER PRIMA COSA PORTA CON TE IL CONTENITORE RIGIDO A PROVA DI PUNTURA PER LO SMALTIMENTO.
Il contenitore deve essere su un carrello, poggiato in maniera stabile, sul ripiano superiore, con l’apertura ben visibile, non pieno oltre i due terzi, e con una capacità tale da accogliere l’intero dispositivo e non solo l’ago.
- QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, NON AVERE FRETTA, NON LASCIARTI DISTRARRE.
Se il paziente non è collaborativo, perché ha una ridotta coscienza (e.g. età estreme, patologie neurologiche), attendi che ti aiuti un collega.
- QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, LA DISTANZA MASSIMA ACCETTABILECHE L’AGO DOVRÁ PERCORREREÈ PARI ALLA LUNGHEZZA DEL TUO BRACCIO.
Questa è la distanza che va generalmente calcolata tra il punto dal quale estrarrai l’ago o il tagliente una volta completata la procedura e il punto in cui è posizionato il contenitore dove smaltirai l’ago/tagliente che hai utilizzato.
- QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, CHIEDITI SE È NECESSARIA.
Se lo è, effettua l’igiene delle mani e mettiti i guanti, e se esiste la possibilità di uno schizzo di sangue, copri gli occhi con occhiali protettivi (non da vista!) e bocca e naso con una mascherina chirurgica.
- QUANDO STAI PER EFFETTUARE UNA PROCEDURA CHE PREVEDA L’USO DI AGHI O TAGLIENTI, CHIEDITI SE IL DISPOSITIVO CHE STAI PER USARE È QUELLO CORRETTO. SE HAI A DISPOSIZIONE UN DISPOSITIVO CHE INTEGRA UN MECCANISMO DI SICUREZZA, USALO.
Non usare un ago staccato al posto di una lancetta, non attaccare una seconda linea sulla prima, non bucare una linea per iniettarvi un farmaco, non usare aghi non necessari per la preparazione dei farmaci. Se per questa procedura è disponibile un dispositivo integrante un meccanismo di sicurezza, utilizzalo secondo la formazione e l’addestramento che hai ricevuto.
- QUANDO HAI EFFETTUATO LA PROCEDURA, SMALTISCI IMMEDIATAMENTE IL DISPOSITIVO CHE HAI APPENA USATO IN MODO DEFINITIVO, NEL CONTENITORE IDONEO.
Non rincappucciarlo, non disconnettere l’ago, non piegarlo o spezzarlo. Se hai usato un dispositivo integrante un meccanismo di sicurezza, verifica che il meccanismo sia attivato al termine della procedura. Ricorda che quello che fai riguarda anche gli altri: l’esempio, buono o cattivo, viene imitato.
- NON LASCIARE MAI UN AGO O UN TAGLIENTE IN GIRO, ANCHE QUANDO È STERILE, O NON È STATO USATO SU UN PAZIENTE.
Chi poi si ferisce non sa se il dispositivo sia stato usato, e si spaventa comunque, soprattutto quando non è un operatore sanitario, ma, per esempio, un operatore della ditta di pulizie, della lavanderia, del trasporto rifiuti. Educa anche il paziente ad eliminare i dispositivi che usa nei contenitori rigidi a prova di puntura, anche a casa: è una sicurezza per tutti.
- NON ASPETTARE DI AVERE UN’ESPOSIZIONE A RISCHIO: VACCINATI CONTRO I PATOGENI TRASMISSIBILI IN OSPEDALE.
Verifica se hai risposto alla vaccinazione, e impara il tuo titolo anticorpale. Devi essere sicuro di essere protetto. La vaccinazione protegge te, i tuoi cari, i tuoi colleghi, e i tuoi pazienti.
- SE NONOSTANTE TUTTE LE PRECAUZIONI, DURANTE O AL TERMINE DELLA PROCEDURA, PER UN MOVIMENTO BRUSCO DEL PAZIENTE O PER ALTRA CAUSA IMPREVEDIBILE, L’AGO O IL TAGLIENTE TI FERISCONO, RIMANI CALMO.
Facilita il sanguinamento, se c’è, ma non in modo esagerato. Lava con sapone antisettico e disinfetta con povidone iodio o clorexidina. Informa il paziente dell’accaduto, se è cosciente, come premessa per chiedere il consenso ai test sierologici per virus a trasmissione ematica. Ricorda che per tutti gli agenti infettivi noti è disponibile una efficace profilassi o terapia, o entrambe: le conseguenze dell’incidente non sono mai irrimediabili, se lo denunci immediatamente e vieni assistito. Quindi, informa immediatamente il caposala, il tutor, il medico di guardia, a seconda della situazione, per farti aiutare nei passi successivi: con il trascorrere del tempo, le profilassi sono meno efficaci, e potrebbe non essere più possibile sapere notizie del paziente-fonte, per dimissione, trasferimento, decesso. Non vergognarti di denunciare l’incidente, anche se pensi che la colpa dell’incidente sia in parte tua: solo chi non fa non sbaglia.
- IMPARA DAL TUO INCIDENTE O DA QUELLO DEL TUO COLLEGA. LEDENUNCE SERVONO ANCHE A QUESTO.
Correggi i comportamenti pericolosi anche a rischio di passare per uno scocciatore. Cambia le procedure sbagliate, quelle dove si impiegano aghi o taglienti inutili, o si inseriscono o lasciano in sede dispositivi non necessari. Sollecita l’introduzione di dispositivi integranti un meccanismo di sicurezza, se esistono per la specifica attività che devi svolgere. Valuta l’idoneità dei contenitori, le dimensioni dei carrelli. Verifica che nessun ago o dispositivo che viene a contatto col sangue possa essere riutilizzato per più pazienti. Scegli sempre la procedura e il dispositivo più sicuri possibile, per il paziente e per te: lui è importante, ma lo sei anche tu.
da ilpuntosalute | 3 Lug, 2018 | Informazioni mediche
È Lenalidomide il primo farmaco orale approvato per il trattamento continuativo del mieloma multiplo, ora viene rimborsato anche in Italia nell’indicazione mantenimento post-trapianto dopo il via libera di AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco). Ad oggi è l’unico farmaco approvato dall’European Medicines Agency (EMA) per la terapia di mantenimento del mieloma multiplo post-trapianto.
Approfondiamo meglio le tematiche con Michele Cavo, Direttore Istituto di Ematologia ‘Seràgnoli’, Università degli Studi di Bologna.
Il Mieloma Multiplo è considerato una malattia rara ma i numeri sono importanti. Qual è l’epidemiologia di questo tumore del sangue in Italia?
Il numero di pazienti che ogni anno riceve in Italia una diagnosi di Mieloma Multiplo (MM) è di circa 5.500. Sono numeri di circa 2 volte superiori rispetto a quelli registrati per alcuni tipi di leucemia acuta, anche se inferiori della metà rispetto a quelli noti per alcuni tipi di linfoma. L’età mediana alla diagnosi è attorno ai 70 anni, e in circa il 30-35% dei pazienti la diagnosi di MM viene posta in età superiore ai 75 anni.
Cos’è il Mieloma Multiplo e come si caratterizza?
Il Mieloma Multiplo è un tumore del midollo osseo caratterizzato dall’aumentata proliferazione di B linfociti e di plasmacellule. Queste ultime sono fisiologicamente deputate a produrre gli anticorpi, vale a dire le immunoglobuline. Nel MM le immunoglobuline sintetizzate dalle plasmacellule sono fra loro identiche e vengono identificate con il termine di “componente monoclonale”. Le immunoglobuline monoclonali sono presenti nel sangue periferico e/o nelle urine, e possono essere facilmente riconosciute con semplici tecniche di laboratorio, prima tra tutte l’elettroforesi delle proteine del sangue. La componente monoclonale è, quindi, un marcatore del MM (in circa un terzo dei pazienti è la prima alterazione rilevata occasionalmente nel corso di esami laboratoristici eseguiti routinariamente o per altri motivi a condurre alla successiva diagnosi) che riflette abbastanza fedelmente la “taglia” della malattia e può, quindi, essere facilmente utilizzato per monitorare la risposta della malattia alla terapia.
In generale, com’è cambiata nel corso degli anni la sopravvivenza dei pazienti con Mieloma Multiplo?
La sopravvivenza dei pazienti con Mieloma Multiplo è stata significativamente migliorata nell’arco degli ultimi 15 anni dai cosiddetti “nuovi” farmaci, estremamente attivi e non appartenenti alla classe dei chemioterapici. È difficile dare un numero esatto, perché la probabilità di sopravvivenza è differente a seconda che il paziente abbia ricevuto o meno un programma di chemioterapia ad alte dosi con successivo trapianto di cellule staminali. In ogni caso, per i pazienti non candidati a un trapianto di cellule staminali autologhe la sopravvivenza mediana riportata con gli studi più recenti è più che raddoppiata rispetto a quella registrata prima dell’arrivo dei “nuovi” farmaci. Per i pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali autologhe, la sopravvivenza mediana è invece di circa 10 anni, o addirittura superiore.
Quali sono gli obiettivi fondamentali del trattamento di mantenimento con lenalidomide nei pazienti con MM post-trapianto?
Gli attuali obiettivi della terapia del Mieloma Multiplo sono di ottenere nel maggiore numero possibile di pazienti la risposta di più elevata qualità o, con altre parole, di maggiore “profondità” e di mantenerla per il più lungo tempo possibile. Quest’ultimo è l’obiettivo della terapia di mantenimento eseguita dopo il trapianto autologo, finalizzata a prevenire o ritardare quanto più possibile la ricaduta della malattia. Lenalidomide è ad oggi l’unico dei “nuovi” farmaci ad essere stato approvato dall’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) con l’indicazione di terapia di mantenimento del Mieloma Multiplo dopo trapianto di cellule staminali autologhe.
Qual è il vantaggio offerto ai pazienti da questo trattamento?
La terapia di mantenimento con lenalidomide ha ridotto di circa il 50% il rischio di ricaduta del MM e ha aumentato del 12% la probabilità di sopravvivenza a 7 anni dei pazienti così trattati che, con un più prolungato periodo di osservazione, hanno beneficiato di un prolungamento di circa 2 anni della sopravvivenza rispetto ai pazienti che non hanno ricevuto il farmaco. È importante anche ricordare che lenalidomide è una terapia orale che può essere assunta a domicilio, con un buon profilo di tollerabilità nella maggior parte dei pazienti.
da ilpuntosalute | 18 Giu, 2018 | Informazioni mediche
“Secondo lei quando sarebbe giusto che l’opinione dei pazienti venisse ascoltata e fosse considerata nelle decisioni del Servizio Sanitario Nazionale?” Il 40% dei pazienti ha risposto ‘molto’ e ‘abbastanza’ il 56%. Questi e altri risultati sono emersi dall’indagine realizzata dal 6 al 10 marzo attraverso 1088 interviste CATI a un campione rappresentativo della popolazione italiana tra uomini e donne dai 18 anni in su, segmento per sesso, età, Grandi Ripartizioni Geografiche e Ampiezza Centri proporzionalmente all’universo della popolazione italiana.
Ricerca e innovazione rappresentano la risposta a importanti emergenze di salute globale. Eppure, i cittadini spesso non riescono a riconoscerne il valore: è questa la principale indicazione che emerge dall’indagine quantitativa svolta da Istituto Piepoli. Il 29% degli intervistati identifica la ricerca scientifica come priorità sulla quale si dovrebbero concentrare gli sforzi del Servizio Sanitario Nazionale; appena l’8% considera prioritario per il SSN garantire l’accesso ai farmaci innovativi in tempi rapidi. Eppure, il 97% considera importante, per un paziente con tumore, poter usufruire delle nuove terapie.
Secondo i cittadini coinvolti nell’indagine, presentata a Roma il 14 marzo all’Auditorim di Confindustria, sono i tumori a rappresentare la sfida prioritaria per la Sanità Pubblica; il 72% crede che si dovrebbe investire di più in quest’ambito mentre si sottovaluta l’impatto di malattie come il diabete (meritevole di investimenti solo per il 13% degli intervistati), delle malattie infettive (2%) e della prevenzione vaccinale (2%).I fatti, però, dicono che le minacce per la Salute arrivano da diversi fronti: ad esempio, il ritorno in Italia e in Europa di malattie che sembravano sconfitte, come il morbillo, definito dall’OMS: una tragedia che non si può accettare. Conseguenza del calo della copertura vaccinale o di sistemi di sorveglianza delle malattie poco efficaci.
Le contraddizioni emerse nell’indagine sono state approfondite in una tavola rotonda dal titolo Le Priorità Globali di Sanità Pubblica e la Risposta dell’industria, alla quale hanno preso parte autorevoli esponenti del settore Sanitario nazionale e internazionale, come Stefano Vella, Presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco, Enrico Giovannini, Fondatore dell’Alleanza italiana per lo Sviluppo Sostenibile, Roberto Burioni, Professore di microbiologia e virologia presso l’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano e Julie Gerberding, EVP, Chief Patient Officer, Strategic Commun. Global Public Policy and Population Health, Merck & Co.
Altro tema chiave esplorato nel corso del Summit è quello della gestione sostenibile dellacronicità. Il secondo panel di discussione, Cronicità e sostenibilità: come evitare una Sanità diseguale mettendo il Paziente al centro, ha visto la partecipazione del Direttore Generale per la Programmazione Sanitaria, Andrea Urbani, di Claudio Cricelli, Presidente della Società Italiana di Medicina Generale, di Silvestro Scotti, Segretario Nazionale Generale della Federazione Italiana Medici di Famiglia e di Antonio Gaudioso, Segretario Generale dell’associazione di pazienti Cittadinanzattiva.
Il 39% degli intervistati, infatti, reputa che i pazienti non siano adeguatamente ascoltati e considerati nelle decisioni del SSN e l’84% sostiene che l’offerta di servizi sanitari in Italia non sia distribuita in modo omogeneo ed equo.
Un quadro complesso, quello che si è delineato, nel quale appare evidente l’importanza della cooperazione tra attori del mondo scientifico, del settore pubblico e privato, per il perseguimento di un fine comune: il miglioramento delle condizioni di Salute.
da ilpuntosalute | 15 Giu, 2018 | Informazioni mediche
Antibiotico-resistenza è la capacità tipica dei batteri di rendersi resistenti agli antibiotici. La resistenza agli antimicrobici (AMR-antimicrobial resistance) è un fenomeno in forte espansione e per questo divenuto un problema di sanità pubblica globale che riconosce cause diverse, prima tra tutte il crescente e inappropriato impiego di antibiotici. Non solo in sanità, ma anche nel mondo animale e nell’ambiente.
Finalmente un importante passo avanti per il trattamento delle infezioni da batteri Gram-negativi multi resistenti. Si tratta del primo inibitore delle beta-lattamasi non beta lattamico,
un’arma a disposizione nella lotta contro le antimicrobico-resistenze: un nuovo antibiotico, associazione di ceftazidima, cefalosporina di terza generazione e avibactam. L’Agenzia europea del farmaco (EMA), nell’Annual Report 2016, ha definito il nuovo antibiotico (ceftazidima/avibactam) una ‘terapia innovativa’ perché rappresenta una nuova opportunità di trattamento e un progresso per la salute pubblica adesso disponibile in Italia e dal 21 febbraio in regime di rimborsabilità.
“Avevamo estrema necessità di questo antibiotico perché attivo sulla famigerata Klebsiella resistente ai carbapenemici; è una prima soluzione a un grande bisogno insoddisfatto di antibiotici e, insieme ad altri antibiotici già arrivati o in arrivo, dimostra che la ricerca in questo campo non è morta – dichiara Claudio Viscoli, Direttore Clinica Malattie Infettive Università di Genova e Policlinico San Martino e Presidente della Società Italiana di Terapia Antinfettiva (SITA) –. Avere disponibile questa nuova opzione terapeutica per le infezioni da batteri Gram-negativi resistenti, tanto attesa dai clinici, può cambiare lo scenario”.
Il fenomeno della resistenza agli antimicrobici (AMR-antimicrobial resistance), conosciuta anche come antibiotico-resistenza, è diventato un problema drammatico, anche perché sono pochissime le nuove molecole scoperte negli ultimi anni mentre l’utilizzo di antibiotici in tutti i Paesi è in ascesa continua e spesso se ne fa un uso improprio. Basti dire che negli ospedali dell’Unione Europea oltre il 50% degli antibiotici viene usato senza che sia veramente necessario o in modo inappropriato; a ciò si aggiunge che in Europa il consumo di antibiotici specifici per il trattamento delle infezioni multi-resistenti è raddoppiato tra il 2010 e il 2014. Le sole infezioni ospedaliere causano ogni anno nel nostro Paese tra i 4 mila e i 7 mila decessi. Tutto ciò ha portato a considerare i batteri Gram-negativi come i ‘nemici numero uno’ della sanità pubblica, in particolare dei pazienti ospedalizzati.
“Al momento i problemi maggiori sono quelli causati da patogeni Gram-negativi multiresistenti, appartenenti alla famiglia degli Enterobacteri e ai generi Acinetobacter e Pseudomonas – spiega Claudio Viscoli – le strategie che si possono mettere in atto per controllare la loro diffusione, oltre allo sviluppo di nuovi e più attivi antibiotici, sono fondamentalmente 4: prima di tutto dobbiamo conoscere l’entità del fenomeno, quanto è diffuso e dove; certamente poi dobbiamo controllare la trasmissione da paziente a paziente di questi patogeni, tramite quello che viene chiamato ‘infection control’, a livello delle strutture sanitarie; terzo punto l’uso prudente e razionale degli antibiotici, per contrastare le infezioni e ridurre al minimo la pressione selettiva che seleziona i batteri resistenti, strategia nota come antimicrobial stewardship; quarto punto, infine, migliorare e rendere più rapida ed efficiente la diagnostica microbiologica”.