Nell’antica Grecia, il sonno è rappresentato come un adolescente, che corre leggero sulla terra con un papavero stretto nella mano sinistra, e nella destra un recipiente colmo del suo succo per dare agli uomini il riposo del corpo e della mente. Il sonno, dunque, dona quiete ed energia, ma sempre più persone soffrono di insonnia.
Il lavoro, lo stress, l’avanzare dell’età, la menopausa, le nuove tecnologie che permettono di controllarne la posta e i social networks a qualsiasi ora del giorno sono complici di una notte persa. 9 milioni di italiani, infatti, sono colpiti da tale disturbo che si ripercuote negativamente sulla salute, sul lavoro e sulla qualità della vita. A dimostrarlo uno studio condotto in 5 Paesi dell’Unione Europea, tra cui l’Italia, su 62 mila persone tra individui affetti da insonnia, in trattamento e non, e persone sane.
L’indagine ha rilevato un collegamento significativo tra insonnia e deterioramento della qualità di vita. I pazienti riferiscono un impatto negativo sul lavoro, più che doppio rispetto a chi non è affetto dal disturbo (38,74% vs. 14,86%). Si registra, così, un maggiore assenteismo, compromissione delle performance lavorative e delle attività in generale, oltre un aumento dell’utilizzo di servizi e prodotti medici. Nell’arco di 6 mesi è stato calcolato un numero di visite più alto rispetto ai pazienti non insonni (9,10 vs. 4,08).
Un buon riposo notturno, quindi, è un elisir di salute e benessere. “Per il nostro organismo, dormire bene è importante quanto nutrirsi o dissetarsi – spiega il Professor Lino Nobili, neurofisiopatologo e neuropsichiatra, Coordinatore Scientifico del Progetto Sonno & Salute –. Qualsiasi situazione che interferisce con la qualità e la quantità del sonno contribuisce ad alimentare problemi di natura psicologica, cognitiva, endocrina, immunologica e cardio-vascolare. Intervenire precocemente sui disturbi del sonno è determinante per migliorare lo stato di salute complessivo della persona”.
L’insonnia è trattata in maniera differente a seconda della tipologia e del quadro generale del paziente. Il primo passo è rivolgersi al proprio medico, per identificare e curare l’eventuale causa transitoria che ha provocato il disturbo. L’insonnia può talvolta persistere, in tal caso due sono le principali opzioni da mettere in campo: gli interventi sul comportamento e le terapie mediche.
“Esistono numerosi metodi per correggere comportamenti scorretti che possono causare o peggiorare l’insonnia. In genere sono mirati a cambiare le abitudini, le aspettative e i comportamenti che non favoriscono il sonno nonché a ridurre i livelli di ansia”, precisa Nobili.
Dodici sono i consigli per un sonno di qualità:
1.la stanza in cui si dorme non dovrebbe ospitare altro che l’essenziale per dormire. È sconsigliabile collocare nella camera da letto televisore, computer e scrivanie per evitare di stabilire legami tra attività non rilassanti e l’ambiente in cui si deve invece stabilire una condizione di relax;
2.la camera da letto deve essere sufficientemente buia, silenziosa e di temperatura adeguata (evitare eccesso di caldo o di freddo);
3.evitare di assumere nelle ore serali bevande a base di caffeina e simili (caffè, the, Coca-Cola, cioccolata);
4.non consumare nelle ore serali o a scopo ipnoinducente, bevande alcoliche (vino, birra, superalcolici);
5.sono sconsigliati pasti serali ipercalorici o comunque abbondanti e ad alto contenuto di proteine (carne, pesce);
6.non fumare;
7.evitare sonnellini diurni, eccetto un breve sonnellino post-prandiale, e in particolare i sonnellini dopo cena, nella fascia oraria prima di coricarsi;
8.nelle ore prima di coricarsi, non praticare esercizi fisici di media-alta intensità (palestra);
9.il bagno caldo serale non dovrebbe essere fatto nell’immediatezza di coricarsi, ma a distanza di 1-2 ore;
10.evitare di impegnarsi in attività che risultano particolarmente coinvolgenti sul piano mentale e/o emotivo (studio, lavoro al computer, video-giochi etc…);
11.coricarsi la sera e alzarsi al mattino in orari regolari e costanti e quanto più possibile consoni alla propria tendenza naturale al sonno;
12.non protrarre eccessivamente il tempo trascorso a letto di notte, anticipando l’ora di coricarsi e/o posticipando l’ora di alzarsi al mattino.
“Se il disturbo non migliora si può intervenire con una terapia farmacologica. I sedativo-ipnotici a emivita breve e la melatonina 2 mg a rilascio prolungato (MRP 2mg) registrata come farmaco sono i rimedi consigliati dalle Linee Guida internazionali”, spiega il Professor Lino Nobili.
Per i primi è consigliato l’utilizzo per brevi periodi, non oltre le quattro settimane, in quanto tendono a perdere la loro efficacia se assunti sistematicamente ogni notte per lungo tempo con effetti negativi sulla struttura del sonno stesso, con effetti residui non positivi durante il giorno, come ad esempio sonnolenza e disturbi cognitivi (memoria, attenzione) che possono interferire con le attività quotidiane, inclusa la guida.
L’utilizzo di MRP 2mg è consigliato invece come prima intenzione nei soggetti insonni che hanno superato i 55 anni, ma può essere efficace anche nei soggetti più giovani. La melatonina è un ormone naturale prodotto nella ghiandola pineale e ha un ruolo importante nella regolazione dei ritmi circadiani sonno-veglia, oltre a possedere un’azione di facilitazione e induzione del sonno. Studi clinici hanno dimostrato che la formulazione a rilascio prolungato di MRP 2mg riduce significativamente il tempo di addormentamento, migliorando la qualità del sonno e le performance diurne. Il trattamento è approvato per 13 settimane continuative, in quanto MRP 2 mg non dà assuefazione e generalmente non influenza i livelli di vigilanza diurna.
Per fronteggiare il disturbo nasce, anche, il Progetto SONNO & SALUTE, grazie al contributo dell’azienda italiana: Fidia Farmaceutici. L’iniziativa rientra nelle attività previste nella Giornata Mondiale del Sonno 2017 ed è curata dagli specialisti esperti del sonno con l’obiettivo di contribuire a diffondere nel nostro paese la cultura su queste tematiche.
Una corretta e precoce identificazione dei pazienti con insonnia o altri disturbi del sonno consente di avviarli in modo tempestivo verso un percorso terapeutico idoneo.
Mai senza cappello. C’è stato un tempo in cui eleganza, fascino e, soprattutto, status sociale, non potevano fare a meno di esprimersi attraverso il più iconico degli accessori maschili. Il cappello definiva la posizione di un uomo in società, era la sua carta d’identità, un simbolo poi captato dal cinema e trasformato in segnale di riconoscimento.
Il berretto nero, rigido con visiera militare accompagna Marlon Brando in “Fronte del porto”, James Dean lancia i grandi cappelli con larga falda rialzata. Cary Grant ammalia Ingrid Bergman con il suo lucido e scurissimo feltro nelle inquietanti atmosfere del film “Notorius”, e Humphrey Bogart la seduce in Casablanca con il suo cappello in feltro che gli dona l’aspetto del bel tenebroso. Nel frattempo, il romanzo di Hemingway “Per chi suona la campana” diventa un film in cui il fascinoso Gary Cooper appare con in testa un copricapo in stile americano. Tutto ciò senza trascurare i film western dove venivano proposti modelli casual morbidi, a colori pastello che sembrano incontrare il gusto dei giovani, e ovviamentelo Stetson, il tipico cappello da cow boy realizzato in feltro impermeabile.
Brigitte Bardot è un’amante dei cappellioversize di paglia e lo stile da spiaggia lanciato dalla bellissima BB oggi è più attuale che mai, tanto da ispirare le nuove generazioni. Il cappello, infatti, è l’accessorio di stile che non può mancare nel guardaroba. Praticamente un must-have colorato, divertente e adatto per proteggersi dalla pioggia,farsi ombra, ripararsi dal sole e comunicare.
Proprio più di un secolo fa, nella terra salentina, inizia la storia di Doria 1905. Il nome della famiglia, e conseguentemente quello del brand, deriva da Oria, città del Brindisino che tra il VII e il X secolo ospitò la più illustre e prestigiosa comunità ebraica d’Europa, mentre a Maglie (Lecce) nascono i cappelli sartoriali che poi raggiungono mete lontane per raccontare: suggestioni, colori, sapienza, tessuti, materiali e artigianalità 100% made in Italy.
Panama, drop, arrotolabili, bowler e le classiche coppole d’antan sono alcuni cappelli realizzati da Doria 1905. E in occasione di Pitti Immagine Uomo 92 ha presentato IENTU, un copricapo in lino blu. Fresco, pratico, elegante, tascabile perché destrutturato e da viaggio. A questo è abbinato il primo “profumo da cappello”, nato grazie alla partnership con la creatrice di fragranze artistiche Gabriella Chieffo. Si chiama Acquasala il profumo con i sentori salmastri del vento salentino.
Cashmere, velluto, feltro, pelle scamosciata per l’Autunno/Inverno, mentre cotone, lino e rafia per le linee Primavera/Estate sono i tessuti naturali e italiani utilizzati dal brand.
Quest’ultimi caratterizzano le nuove quattro collezioni SS 17 ispirate al viaggio con rotta verso i mari del Sud, sulle tracce delle vie del tè e del caffè. Cappelli dal colore candido del Panama accostato al tono ostrica più raffinato in contrasto con i toni del blu profondo. Oltremare, bluette, turchese, acquamarina, abisso sono i colori che illuminano le stampe policrome in contrasto con i toni dell’avorio, creando grafismi tra intrecci di meduse e flutti marini, senza trascurare le fantasie floreali che si mescolano ai motivi camouflage e le stampe rigate impreziosite da fili metallici.
E per il futuro? In occasione di PITTI FRAGRANZE 15 sarà presentata una nuova fragranza alla curcuma della Maison Gabriella Chieffo abbinata ai copricapi Doria 1905. Il brand prosegue così sulla rotta delle emozioni trovando nella creatività di Gabriella Chieffo una grande sintonia culturale e stilistica.
Simone Lucci
Doria nasce a Maglie nel 1905 da un piccolo laboratorio sartoriale nel centro cittadino, specializzato nella produzione di berretti e abbigliamento, nel quale la Famiglia D’Oria, insidiatasi in zona alla fine del secolo precedente, realizza con artigianalità e passione capi preziosi. Nel 1937 il figlio Sabino prosegue l’avventura di famiglia, costituendo la Sabino D’Oria e Figli, una piccola azienda che si insedia in uno stabilimento alle porte della città, si dedica alla produzione di abbigliamento da bambini e si specializza nella berretteria, produzione tipica della zona che vede Maglie come fulcro del migliore distretto della berretteria italiana. È all’inizio degli anni ’60 che la Famiglia D’Oria decide di investire in un nuovo stabilimento su 3 livelli, tuttora sede dell’Azienda, con manodopera tutta femminile e circa 120 impiegati, facendo il grande salto e diversificando le sue produzioni specializzandosi, oltre che nell’abbigliamento da bambino, anche in forniture militari, con particolare attenzione ai copricapo che rimangono il fulcro intorno al quale ruota tutta la lavorazione.
Rilevata alla fine degli anni ’90 dalla Famiglia Gallo di Asti, diventa in seguito “neo.B-Lab S.p.A.” distinguendosi sin dagli esordi per il suo impegno nella produzione artigianale di alta gamma, con una continua attenzione alla cura dei dettagli, stili e tendenze che ben presto ha portato ad arricchire la serie di prodotti.
Oggi l’Azienda vanta uno staff giovane e completamente rinnovato, composto da una divisione commerciale, una sezione Stile, 60 operai specializzati e un LAB interamente dedicato alla prototipia per il marchio DORIA e per i clienti esterni.
Alla fine del 2012 Neo.B-Lab decide dunque di dare il via ad un ambizioso progetto di restyling e di rilancio del marchio DORIA, ribattezzato DORIA 1905 in onore alla sua prestigiosa storia, il cui principio fondante è nella fusione tra la ricerca sullo studio degli archivi e sulle lavorazioni sartoriali, frutto di tradizione e storia, e la conoscenza delle più innovative tecniche di produzione. Una produzione in continua evoluzione e miglioramento, i cui cappelli non sono più semplici copricapo, ma accessori preziosi, risultato di passione, abilità, impegno e dedizione.
In un crocevia di strade con nomi suggestivi che raccontano di miti e che parlano la lingua di chi va per mare sorge Trapani. Dal 2005, anno in cui l’American Cup ha fatto tappa nella città di mare e di vento, il ristorante Le Mura di Daniele Fallucca accoglie i suoi ospiti. Circondato dalle case dei pescatori e “protetto” da uno degli antichi bastioni imperiali, il locale raffinato dai soffitti di pietra, con sale luminose ravvivate da quadri moderni offre prelibati piatti a base di pesce abbinati a vini e Champagne ricercati.
“Il re del menù è il pesce, ma in inverno realizziamo anche manicaretti a base di carne – precisa Daniele Fallucca –. Lo chef Rocco di Marzo si occupa della spesa al mercato che dista 5 minuti dal locale. Un paio di imbarcazioni ci forniscono materia prima fresca, di stagione e di qualità. Noi la rendiamo nobile e interessante al palato”.
La cucina, infatti, propone i piatti della tradizione creati con ingredienti pregiati: un piacere da assaporare fin dalla presentazione.
“Insalata di polpo, caponata di tonno, cocktail di gamberi con maionese, olive, panelle al nero di seppia e trito di capperi come antipasti. Il piatto Le Mura con pesce stagionale, gambero e julienne di calamari come primo, e tra i secondi il fritto di paranza con calamaro, cappuccetto, moscardini, gamberone e pesce di rete sono le portate che meglio identificano il ristorante”, riferisce Rocco di Marzo, chef formatosi all’Accademia dell’Arte Culinaria di Chioggia, membro della Federazione Italiana Cuochi, Ambasciatore della Cucina Italiana nel mondo nel 2012, e vincitore del premio Elimo nel 2013, come miglior chef della provincia Trapani.
La cucina siciliana del ristorante realizza anche portate rivisitate in chiave moderna.
“Il gambero rosso pescato a 15 miglia di ponente viene scottato in acqua e sottoposto a shock termico con il ghiaccio e poi abbinato a una maionese all’ostrica e all’olio extravergine delle valli trapanesi. Il prosciutto di pesce spada fresco marinato 14 ore con sale, zucchero e aromi, viene esaltato da scaglie di cioccolato e salsa d’arance. E poi ancora, orecchiette con vongole voraci e pesto di bottarga di tonno, formaggio, pomodoro, patate, foglie di sedano e scorzette d’agrumi, e infine una darna di Lampuga ricca di Omega3, cotta a bassa temperatura per 20 minuti a 80 gradi, a cui è stata fatta coagulare la proteina e poi scottata, abbinata a una purea di patate e alle lenticchie vulcaniche di Ustica: piccole, scure e ricche di ferro. Sono questi i piatti accostati allo champagne”, precisa lo chef.
Lo champagne è stato definito per secoli “il vino dei Re, e il re dei vini”. Non è tanto l’enfasi della supremazia rispetto agli altri vini che oggi colpisce di questa affermazione, quanto la definizione stessa e spesso dimenticata che lo champagne sia prima di tutto un vino. É da questa consapevolezza che Heres, distributore di champagne, ha trovato l’ispirazione per selezionare 5 differenti etichette a ciascuna portata. Champagne Jean Milan Blanc de Blancs extra brut G.C., Champagne Corbon Anthracite G.C., Champagne Juillet Lallement Brut Selection G.C., Champagne Saint-Réol-A’Ambonnay Elegance Brut G.C. 2004 e Champagne de Saint Gall Rosè 1er Cru.
Ogni bottiglia racchiude decine di decadi di gesti artigianali sapienti, dalla vigna alla cantina, che si sono evoluti nel tempo per rendere onore alla parola artigianalità stessa. Il Progetto Champagne Gran Cru di Heres propone una selezione che enfatizza l’originalità di un percorso alla scoperta del territorio della Champagne, viaggiando tra differenti cuvée che racchiudono uve e stili da alcuni dei soli 17 Grand Cru (4000 ettari su 33700), dove ogni bottiglia diventa un autentico e sublime mezzo di comunicazione per raccontarne la storia.
E saper accostare il vino a cibo è importante, interessante, e non così banale. È fondamentale ricercare il giusto equilibrio per non rovinare il piatto servito. I lieviti presenti nel cibo devono essere in totale armonia con il vino. “Ho frequentato il secondo e terzo livello del corso di sommelier perché conoscere l’accostamento tra cibo e vino quando si mangia rende l’esperienza a tavola un vero piacere – afferma lo chef di Marzo –. Il trucco è utilizzare le parti chimiche del vino (acidi, tannini, sali minerali, zuccheri, alcoli, polialcoli, CO2 delle bollicine) e non accostarle ai lieviti o alle clorofille presenti nei vegetali, in quanto vanno in contrasto senza creare un equilibrio”.
Qual è l’iter per abbinare correttamente il vino al cibo? “Solitamente penso al piatto da realizzare, conosco gli ingredienti, lo cucino, lo assaggio e accosto il vino, ma non subito. Mangio la pietanza, faccio riposare appena le papille e assaggio, in tal modo si può comprendere se l’equilibrio è esatto o errato”, dichiara lo chef.
In un’atmosfera di grande piacevolezza, dove aromi, sapori e un panorama incantevole si uniscono a creare un’armonia perfetta è possibile assaporare gustosi manicaretti e vini unici.
Simone Lucci
Le 5 cantine
Champagne Jean Milan
L’azienda di famiglia nasce nel 1864.Situata tra Avize e Mesnil-sur-Oger, nel cuore della Côte des Blancs, la tenuta è Oger Grand Cru, prestigioso vigneto di Chardonnay noto per l’esclusiva finezza e rotondità. Nel rispetto della tradizione, Caroline e suo fratello Jean-Charles sono oggi gli eredi di una passata conoscenza fatta di passione e rigore. I due fratelli, infatti, combinano la passione e la tradizione, condividendo le loro competenze con professionalità e creatività sorprendente. Essi offrono così una gamma di champagne eccezionali con delicatezza e freschezza, dove Chardonnay Grand Cru di Oger dominato per la sua eleganza.
Champagne Corbon
Claude e Agnès Corbon, padre e figlia, gestiscono i sei ettari di vigneto nel cuore della Côte des Blancs, ad Avize, 100% Grand Cru. La storia parte dagli anni Venti, quando Charles Corbon si traferisce ad Avize, lavora in una Maison e poi inizia ad acquistare i propri vigneti. Per lungo tempo si coltivano le uve per poi venderle alle altre case vinicole, ma è durante la crisi economica degli anni Settanta che si decide a trasformarsi in produttore e questa scelta avviene ad opera di Claude Corbon.
Dal 2006 lo affianca nell’opera la figlia Agnès. La loro idea di Champagne è semplice e chiara: niente filtrazioni o collaggi, nessuna aggiunta di additivi, tre anni di attesa prima di metterlo in commercio, a volte anche di più. Il risultato è quello di vini sinceri, vivaci, intriganti, per niente ovvi e scontati.
Champagne Juillet–Lallement
L’azienda di famiglia Juillet-Lallement è stata fondata agli inizi del XX secolo da tre partner: Paul Lallement, Arthur Lallement e René Juillet. Insieme creano il marchio R.JUILLET – P. & A. LALLEMENT, il primo marchio collettivo di champagne depositato presso il Comité Interprofessionnel du Vin de Champagne (CIVC), che in seguito è diventatoJuillet-Lallement. Dal 1963, l’azienda è gestita da Pierre Lallement, figlio di Arthur Lallement. Ricco d’esperienza, promosso da suo padre e dalla famiglia, Pierre Lallement inizia a sviluppare vinificazione e commercializzazione dei suoi vini. Nel corso degli anni, l’azienda cresce e si modernizza, al fine di sviluppare i migliori vini della Champagne. Spinto dalla passione e dall’aspirazione all’eccellenza, Pierre Lallement aderisce al Club Trésors de Champagne nel 1973, l’associazione viticoltori champagne più antico e riconosciuto. All’alba del 2003, a sua volta, Pierre Lallement passa il testimone al figlio Giovanni che con la moglie Virginia, continuano la tradizione di famiglia.
Champagne Saint-Réol
Questa cantina sorge nel cuore della Montagne de Reims, ad Ambonnay, uno dei 17 villaggi Grand Cru della Champagne. L’azienda racchiude circa 150 vignerons, ognuno dei quali avente a disposizione in media un ettaro di vigneto. Sorta nel 1962, la realtà produttiva racchiude in sé l’anima di questa zona fantastica ed affascinante della Francia. La sua gamma è ampia e variegata. Importanti millesimi accompagnano bollicine rosate e champagne più freschi e semplici ideali per aperitivi o situazioni più informali. Tutte le uve provengono da appezzamenti Grand Cru, anche lo chardonnay, prodotto sia ad Ambonnay, sia in Cote de Blancs nasce e viene raccolto tra i filari dei più prestigiosi comuni. Saint-Réol una garanzia di tipicità e identificazione tra etichette e territorio.
Champagne De Saint Gall
Un marchio storico e importante, De Saint Gall è un’espressione unica tra tutte le cantine della Champagne. Nata nel 1972, questa realtà comprende circa 1258 ettari vitati e c 1860 famiglie di vignerons. Più della metà dei vigneti sono classificati Grand Cru e questo piccolo dettaglio ha posto fin dall’origine i presupposti affinchè De Saint Gall fosse un brand di fama e successo attraverso i suoi prodotti di qualità. Più di dieci sono i centri di produzione e raccolta delle uve, ogni parcella di ogni villaggio viene vinificata separatamente. Innumerevoli sono i vini di riserva e le possibili combinazioni che ogni anno lo chef de cave ha a disposizione per presentare in commercio prodotti sempre all’avanguardia e di grande impatto. Una cantina rinomata e conosciuta che colpirà il degustatore per la sua gamma ampia e i suoi importanti millesimati.
La campagna LopiLife ha incontrato i medici nei talk show territoriali, il pubblico in eventi gastronomici e sul sito lopiglik.it. E porta in cucina l’innovazione sostenibile “amica del cuore” con le ricette creative firmate dallo Chef stellato Luciano Monosilio, Executive chef, Ristorante Pipero, 1 stella Michelin.
Nato ad Albano Laziale nel 1984, dopo la scuola alberghiera, Monosilio esordisce ventenne nella cucina di Roscioli. Ha la possibilità di collaborare con Fulvio Pierangelini e con Mauro Uliassi. Dopo due anni di grandi numeri in Sudafrica, in un ristorantone di Cape Town, torna in Italia, passa al Tordo Matto di Adriano Baldassarre per poi incontrare Alessandro Pipero. Insieme danno vita alla carbonara più famosa d’Italia, in una versione “vaporizzata” con un goccio di grappa.
Perché ha accettato di prendere parte alla campagna “LOPILife – nutriamo la salute del cuore”? In che modo la cucina stellata può essere amica della salute? E come mai uno chef famoso per la carbonara partecipa a una campagna contro il colesterolo?
Negli ultimi anni, con l’avvento della cucina televisiva e dei nuovi trend che catalizzano costantemente i riflettori sull’alta ristorazione internazionale, la pressione dei media di settore ha investito noi chef di grandi responsabilità. All’esperienza gastronomica del cliente, ossia il lavoro canonico e quotidiano del servizio, si somma l’obbligo etico di trasmettere dei valori in un mondo che cambia rapidamente.
Citando Feuerbach, “noi siamo quello che mangiamo”: il cibo è benessere a 360 gradi, il che significa da un lato nutrire lo spirito con la socialità e la condivisione del pasto, dall’altro introdurre nel nostro corpo pietanze che ci facciano vivere a lungo e in salute. Possiamo e dobbiamo dimostrare che è possibile coniugare i due poli, occorre solo maggiore consapevolezza a tavola.
Con un’alimentazione corretta, infatti, possiamo aumentare la probabilità di prevenire le malattie. In particolare, la cucina nell’alta ristorazione è frutto di ricerca di ingredienti, alchimie che legano i cibi e cotture che rispettino le materie prime. Lavorando su tutti questi fronti, si possono creare dei piatti che soddisfino il palato e, allo stesso tempo, che siano “amici del cuore”.
Naturalmente occorre equilibrio: un regime alimentare sano prevede ogni tanto uno strappo alla regola, come mangiare una carbonara. La mia, in particolare, non ha segreti: è diventata popolare per il fatto che ho introdotto un classico della tradizione romana nell’alta cucina, codificandone ricetta e preparazione.
Quali sono oggi le più importanti innovazioni che si stanno affermando nella cucina nazionale?
Ad oggi le innovazioni in cucina viaggiano parallelamente su tre fronti:
1.il recupero delle ricette della tradizione, reinterpretate in chiave contemporanea, eliminando i difetti del passato affinché siano più leggere e salutari;
2.il trattamento delle materie prime con strumenti e tecniche in grado di rispettarne le proprietà organolettiche, come il sottovuoto o la cottura a bassa temperatura;
3.la ricerca in tutto il mondo di nuovi ingredienti da inserire nella nostra cultura gastronomica. Un esempio? Gli insetti. Personalmente sono impegnato in un progetto di produzione di pasta secca a base di farina di grilli, un prodotto con un alto valore proteico e bassi livelli di colesterolo.
Nella scelta degli ingredienti, degli abbinamenti, delle modalità di cottura, come si concilia l’obiettivo di innovare rispettando anche le esigenze di uno stile di vita sano?
Il segreto è utilizzare ingredienti freschi di qualità, verificandone la provenienza, avvalersi di tecniche che non ne distruggano il valore nutritivo e diminuire l’utilizzo di grassi animali e oli vegetali saturi. Il sale, ad esempio, esalta i sapori, ma un uso eccessivo è causa di ipertensione e malattie cardiovascolari. Esistono altri esaltatori di sapidità naturali, come l’aceto (per condire le verdure crude o cotte), il concentrato di pomodoro (come base di minestre, zuppe e sughi), aglio e cipolla, le erbe aromatiche, le spezie (curry, cumino, curcuma, paprika affumicata e zenzero disidratato in primis), la salsa di soia e il miso. Queste alternative conferiscono alle pietanze un sentore di sapidità – ben diverso dal concetto di “salato” – che rientra nella categoria del “quinto gusto”, collegato al glutammato monosodico, ossia l’umami.
Un aiuto per una sana alimentazione può venire anche dai metodi di cottura. La cottura a bassa temperatura, ad esempio, ideale per tagli di carne come il carré di agnello, il petto di pollo o il filetto, permette di mantenere inalterate le proprietà organolettiche e nutritive degli alimenti, limitando l’uso di condimento e di grassi. Per cucinare un petto di pollo saporito basta semplicemente prendere una pentola con un po’ d’acqua e posizionare alla base un panno di stoffa; portare la temperatura dell’acqua a 60-65 gradi (si può misurare utilizzando un termometro da cucina) e poggiare sul panno il petto di pollo precedentemente condito con pepe, sale e olio e messo in un sacchetto di plastica sottovuoto. Si fa cuocere quindi all’interno della pentola, portata a temperatura, per 20 minuti. Il petto di pollo cotto in questo modo risulterà buono e succulento perché non avrà perso i liquidi durante la fase di cottura.
Anche l’utilizzo della pentola a pressione, ancora molto sottovalutata, permette di mantenere inalterate le proprietà degli alimenti.
Quali sono, secondo lei, i fattori che maggiormente ispirano la creatività dello chef per un nuovo piatto o un nuovo abbinamento gastronomico?
In cucina la ricerca e lo studio di tecniche e ingredienti innovativi rappresentano il leit-motiv di ogni processo creativo, che vive in ogni chef e non si interrompe mai. Sono poi i piccoli spunti della vita quotidiana che fanno nascere un’idea e che, quando vengono razionalizzati, si trasformano in un nuovo piatto.
In estate la parola d’ordine è idratazione. Bere molta acqua è necessario gli amanti delle bevande dolci, fresche e fruttate il thè freddo rappresenta una valida alternativa.
Durante la stagione estiva, infatti, il thè non va in vacanza, ma si reinventa e si declina a seconda delle situazioni e dei gusti.Melograno, litchi, mandarino, mirtillo, ananas, limone/zenzero e cocco/curcuma sono le varianti del SanThé Sant’Anna che uniscono le benefiche virtù della frutta alle proprietà energizzanti del thè adatte, anche, per preparare una granita fai-da-te.
Basta scegliere uno dei gusti nel formato bicchierino, agitare qualche secondo, riporre per 2-3 ore la bevanda in freezer, aprirla, attendere qualche istante e gustare così una granita fresca, dissetante e a basso contenuto calorico.
Con i suoi chicchi color rubino e il gusto dolce, il melograno è molto apprezzato nel campo della salute naturale, soprattutto unito alle proprietà del thè verde. Il frutto è ricchissimo di antiossidanti, vitamina C, vitamina K, vitamine del gruppo B, proteine, carboidrati,ferro, calcio, magnesio, fosforo e potassio, che aiuta a svolgere correttamente le funzioni cellulari.
Originario della Cina, il litchiha proprietà terapeutiche derivate dalla vitamina B3, in grado di dilatare i vasi sanguigni, facilitare la purificazione del sangue e allo stesso tempo regolare le numerose reazioni ossidative nelle cellule. La vitamina C, invece, contrasta i virus influenzali e protegge dai raggi UVA.
Del mandarino non si butta nulla. La buccia, infatti, contiene limonane che ritarda l’invecchiamento della pelle, mentre le polpa è ricca di vitamina A, B e C, essenziale per mantenere reattivo e vigile il cervello, oltre a una consistente percentuale di ferro, magnesio e acido folico. La vitamina P, inoltre, combatte la ritenzione idrica e favorisce la diuresi.
Ricco di acido folico, tannini, antocianine e glucosidi antocianici, il mirtillo riduce la permeabilità dei capillari e rafforza la struttura del tessuto connettivo, sostenendo e migliorando l’elasticità e il tonodei vasi sanguigni.
L’ananas è nota per i benefici contro la cellulite, la ritenzione idrica e i suoi effetti digestivi. È un frutto dolce e contiene poche calorie, risulta quindi un alimento adatto alle diete ipocaloriche. Molto ricco di acqua, contiene anche una discreta quantità di carboidrati sotto forma di zuccheri e in particolare di glucosio, fruttosio e saccarosio. È una fonte di vitamina C, di potassio e di magnesio. L’ingrediente fondamentale contenuto nell’ananas è la bromelina, un insieme di enzimi dalle potenti proprietà digestive.
Zenzero e limone sono alimenti che offrono noti benefici per la salute. Se assunti insieme però gli effetti aumentano, rendendo una bevanda ricchissima di proprietà per la salute. Lo zenzero e il limone hanno effetti depurativi, regolatori della digestione e del metabolismo, antinfiammatori e rafforzanti del sistema immunitario, grazie alla combinazione dei principi attivi, antiossidanti e vitamina C.
Nel suo viaggio intorno al mondo nelle diverse culture del benessere, Sant’Anna unisce alle proprietà del thé e dell’acqua, le virtù benefiche di due preziosi ingredienti: il cocco, che gli abitanti delle isole del Pacifico considerano un vero e proprio toccasana per la salute, tanto da chiamare la palma da cui nasce &Albero della Vita&, e la curcuma, una spezia impiegata nella medicina tradizionale indiana e cinese, dalle proprietà disintossicanti e antiossidanti.
Oltre ai benefici derivati dai frutti, le granite sono prive di glutine, conservanti e coloranti. Caratteristiche tipiche dei classici thè Sant’Anna.
Il thè è tra le bevande più consumate al mondo. Fin dall’antichità, la sua antica pianta si è diffusa dall’Oriente in tutto il pianeta diventando, nei secoli, un rito irrinunciabile a colazione, a merenda o durante l’intera giornata. Il suo gusto fragrante, infatti, si sposa alle proprietà energizzanti e purificanti che lo rendono, nelle giuste quantità, un tonico naturale, dissetante e benefico per tutte le età.
Il thè nero e il thè verde sono i più diffusi. Derivano entrambi dalla medesima pianta, ma sono trattati in modo differente. Il thè nero è fermentato, mentre il thè verde viene esiccato prima che il processo di fermentazione abbia inizio. Le due varietà, di conseguenza, hanno caratteristiche diverse: più tonico ed energizzante il primo, fermentato, più ricco di antiossidanti e principi digestivi il secondo.
La bevanda, inoltre, contiene caffeina (o teina). Anche se la concentrazione di SanThè è bassa (1,76 %), non è adatto ai bambini sotto i tre anni di età. Nella giusta quantità invece (un bicchiere d’inverno, due in estate) può diventare un’ottima bevanda tonica e digestiva per l’intervallo e per la merenda dei bambini in età scolastica, evitando il consumo nelle ore serali per evitare di disturbare il sonno dei più piccoli.
Il thè un prezioso alleato per chi ama prendersi cura di sé e rendere speciale ogni momento della giornata.
Non esistono diete precostituite, universali e immediate. Il problema cellulite presenta una genesi multifattoriale legata all’alimentazione ma anche al processo ormonale e allo stile di vita. Quanto più la cellulite è vecchia e radicata, tanto più occorre modificare abitudini e comportamenti. Solo una metodica e costante applicazione di regole di vita equilibrate risulta vincente. Trattamenti costanti, movimento e alimentazione corretta modificano gradualmente il tessuto, tengono sotto controllo la situazione e fissano i risultati ottenuti.
Se con la cellulite non c’è un importante sovrappeso, si sconsiglia di fare diete a basso regime calorico. È molto importante invece curare la qualità degli alimenti, senza eccedere comunque nella quantità. Alcuni consigli utili:
Bere molta acqua: da 1 litro e mezzo a 2 litri al giorno. Minerale, non gassata, a temperatura ambiente e lontano dai pasti. Può essere assunta in parte anche sotto forma di infuso di erbe ad azione depurativa.
Privilegiare i cibi ricchi di fibre: frutta, verdura, cereali integrali. Mangiare almeno 2 frutti nella giornata. Al mattino e lontano dai pasti. Durante i due pasti principali mangiare una buona razione di verdure, alternandole, e almeno una volta al giorno crude.
Mangiate una volta al giorno le proteine privilegiando nell’ordine il pesce magro (alici, sogliole, merluzzo, branzino, ecc.).
Non eccedere con il sale. Il sale da cucina favorisce la ritenzione idrica, usarne piccole quantità e insaporire i piatti con aromi freschi a crudo (basilico, prezzemolo, rosmarino, timo, origano ecc.). Attenzione anche al “sale nascosto”: olive, patatine, acciughe, salumi, crackers salati e tutti gli snack.
Abolire o limitare il più possibile gli alcolici, i fritti, il caffè, la panna, i salumi, il cioccolato, e tutti i dolciumi, la maionese, le salse confezionate, i dadi da cucina, tutti i cibi in scatola, sott’olio e le conserve.
Cucinare in modo semplice: a vapore, al cartoccio, al forno, nelle pentole antiaderenti, e condire con olio d’oliva a crudo.
Frazionare le calorie. Meglio consumare 5-6 piccoli pasti piuttosto che 2 o 3 pasti abbondanti. Con più pasti si stimola il metabolismo e non si affatica l’apparato digerente.
Integrare l’alimentazione: con appositi supplementi alimentari a base di estratti di alghe per migliorare il metabolismo, di ananas e papaia per decongestionare e favorire il riassorbimento, di tarassaco e betulla per eliminare l’acqua stagnante dai tessuti, di gingko biloba e centella asiatica per tonificare i capillari e migliorare la circolazione. Acido lipoico per migliorare il metabolismo dei glutei e di grassi.
Intolleranze alimentare: importante è evitare alcuni alimenti poco tollerati, perché spesso, la cellulite e la ritenzione idrica sono favoriti da cibi che causano una risposta negativa al nostro organismo.
Evitare lo stress. Il destino del cibo è anche in relazione al tipo di ambiente interno che trova nell’organismo e quindi il suo utilizzo può essere condizionato da fattori esterni. Evitate situazioni che creano ansia e stress. Quando vi accingete a consumare il pasto evitate distrazioni a tavola, non leggete, non guardate la tv, se siete in compagnia evitate argomenti che possano procurarvi nervosismo. Mangiate soltanto!
Giuseppe Piccione,
laureato in scienze biologiche
dottorato di ricerca in chimica degli alimenti
esperto in qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana.
Il make up è un’arte antica. Che sia un appuntamento quotidiano o un lusso per occasioni speciali, truccarsi non è mai fine a se stesso: attraverso il make up, le donne giocano con la propria identità e con il desiderio di migliorarsi. Il trucco tende ad abbellire l’immagine, a enfatizzare alcuni aspetti fisici e della personalità come: la dolcezza, la semplicità, la sensualità, l’aggressività, la risolutezza o la determinazione.
“Il make up si indossa come un abito, serve a nascondere i difetti e a valorizzare i punti di forza – spiega Maurizio Calcagno, look maker e make up artist–. Io parto dal presupposto che non esiste il difetto. Con i cosmetici adatti si valorizzano i punti di forza per incorniciare il volto. La correzione, il chiaro/scuro, il contouring, le sfumature mettono in secondo piano gli aspetti meno affascinanti. Questo è ciò che insegno presso la mia accademia”.
Maurizio Calcagno non è soltanto un truccatore professionista esperto di trucco correttivo, è un artista. Arte, colori, passione, concentrazione, attenzione e precisione caratterizzano i suoi 40 anni di carriera. “A 15 anni, mi divertivo a disegnare con gli ombretti sulla carta nella profumeria dei miei genitori, mi piacevano le tinte pastello. Un giorno avevo ricopiato, da una brochure di make up, il volto di una giapponese e le avevo truccato l’occhio. ‘Che bello! Se hai truccato la carta, trucca me, ha esclamato la collaboratrice del nostro negozio. E, seguendo anche un po’ le sue indicazioni, io l’ho truccata. Da quel giorno, ho iniziato a truccare anche le clienti della profumeria, le amiche e qualche sposa”. Il look maker racconta così i suoi esordi.
Intorno al 1980 decide di trasferirsi a Roma per frequentare il corso con Roberto Bolori all’A.R.A. l’Accademia di trucco e acconciature. “Il corso è durato quasi 5 mesi, ho avuto la fortuna di avere il mio famoso e meraviglioso insegnante dalla mia parte. Ero l’unico che veniva da lontano per seguirlo e mi coccolava un po’ più degli altri. Andavo da lui tutti i giorni dalle 7 alle 22,30. Ho imparato moltissimo, tanto che finito il corso sono rimasto nel suo studio per altri 2/3 mesi, e dopo lui mi ha scelto come sua spalla nei corsi e come dimostratore nelle aziende. Fino ad assumermi nella sua azienda che produceva i make up di Roberto Bolori. Ho girato per 5/6 anni tutta l’Italia, e poi mi sono dedicato unicamente al mio centro estetico”.
Nel 1984, Calcagno si occupa del trucco delle modelle per la prima sfilata della stilista Marella Ferrera. “Ho iniziato a lavorare con Marella prima che diventasse famosa, e così ho avuto la fortuna di truccare sua altezza reale Mafalda di Savoia, e non solo”, racconta Calcagno.
Marta Marzotto, Ornella Muti, Maria Grazia Cucinotta, Martina Colombari, Michelle Hunzinker, Dong Mei, Adriana Volpe, Aida Yespica, Eva Riccobono, Carmen Russo, Afef, Hunter Tylo, Katia Ricciarelli, la top model Mariacarla Boscono e la “cantantessa” Carmen Consoli sono alcuni volti noti truccati da lui.
Puoi dirci qualcosa dei VIP che hai truccato? Qual è stato l’occhio più facile da truccare? O un aneddoto particolare che ti ricordi? L’occhio più facile da truccare è quello di Aida Yespica. L’incontro con Ornella Muti è stato molto emozionante e gratificante, ricordo che lei che mi disse: “Sei bravissimo”. Truccavo, poi, le figlie d’arte scelte da Marella come testimonial per la sfilata di Piazza di Spagna a Roma: Naike Rivelli, Elisabetta Ferracini, Violante Placido e Giada de Blanck: un quartetto meraviglioso. Ma i miei ricordi sono tanti, e potrei continuare a lungo…
Donne VIP o donne non famose. Con quali si lavora meglio? Le donne non famose sono meno capricciose ed esigenti, mentre le VIP hanno un canone da seguire. Amo però Michelle Hunziker per la sua umiltà e tranquillità, mi ha chiamato svariate volte a Milano.
Quando hai di fronte una donna da truccare, qual è la prima cosa che pensi e che guardi? Il make up si indossa come un abito, e deve adattarsi a pennello, valuto quindi diversi aspetti della cliente, studio i tratti del suo volto e la sua personalità. Ci sono donne che vogliono osare e altre che non ne hanno il coraggio, così si selezionano i cosmetici, i colori da applicare senza forzature, stravolgimenti e nel rispetto della cliente.
Il trucco muta a seconda dell’età? La donna giovane si può permettere tutto, mentre con l’avanzare dell’età è importante scegliere la quantità di trucco adeguata, tenendo però in considerazione la personalità di chi si ha di fronte. Una donna di 70 anni con un carattere pazzesco, esplosivo e il capello blu può indossare anche un ombretto fucsia, ma questo non vale per tutte! Generalmente, la donna di classe sa fino a che punto osare. Per non evidenziare i segni del tempo, poi, bisogna evitare matite scure e ombretti metallizzati.
Qual è la donna più difficile da truccare? Non c’è. È chiaro che trovo più stimolante truccare la donna meno bella e renderla affascinate, intrigante: è una soddisfazione incredibile.
E il trucco per lui? Molto richiesto, e quasi preteso dalle spose. Per shooting fotografici e show televisivi, il make up correttivo è quello più adatto. Il fondotinta in gel, in polvere, la terra priva di brillantini e non shining correggono gli inestetismi senza definire eccessivamente i tratti del volto.
Da che cosa parti per decidere come truccare una persona? Dal dialogo: parlo molto con le donne per capire chi sono e qual è il loro temperamento. È una strategia che adotto spesso con le spose; mentre dialogo, immagino 2 o 3 colori differenti che valorizzano il volto e la personalità. Decido così mentalmente le soluzioni migliori per soddisfare la richiesta della cliente.
Da quale zona parti per truccare un viso? Ci sono degli step da seguire. La base è il primo passaggio che comprende l’utilizzo di: primer, correttore, fondotinta e cipria per rendere il trucco opaco. Una buona base rappresenta i ¾ del make up. Poi: matita, ombretti, eyeliner e mascara per l’occhio, la zona più importante e difficile perché gli ombretti devono essere ben amalgamati e sfumati, senza trascurare le sopracciglia, sempre ben definite e curate indipendentemente dallo spessore. Fard e rossetto vengono per ultimi.
Di solito che cosa vuole una donna da un make up, e che cosa vuoi tu? La donna vuole essere più bella, giovane e affascinate, mentre io voglio colorare, far sorridere, donare carica, energia e sicurezza.
Meglio un trucco naturale o colorato? Il make up ti cambia. Un trucco naturale non provoca grandi stravolgimenti, definisce leggermente il volto, mentre il make up deciso e colorato esalta i punti di forza. Durante i corsi di self-make up, insegno alle clienti come truccarsi e specifico le zone da evidenziare e da nascondere per valorizzare il viso. Un segreto per la buona riuscita è non sporcarsi durante il trucco.
Ogni donna ha dei colori naturali: occhi, incarnato e a volte anche capelli. Il make up segue questi colori o va in contrasto? È fondamentale rispettare il cromatismo della cliente.
A quale cosmetico una donna non deve mai rinunciare, oltre alle creme idratanti? Il mascara. Non esiste un trucco senza mascara.
Quanto conta la qualità dei prodotti per un trucco ben riuscito? Tantissimo. In un ombretto è importante valutare la scrivenza, la stesura e la pigmentazione. Il cosmetico deve rimanere sulla palpebra e non cadere sotto gli occhi. Il fondotinta deve uniformare l’incarnato con una quantità minima, senza creare spessori e inserirsi nelle rughe. I pigmenti fanno la differenza. Il mascara va scelto in base al pennello, esistono mascara ottimi che curvano maggiormente e donano un effetto siliconico, mentre per l’eyeliner è importante la tenuta, ed è ancor meglio se è waterproof, per evitare sbavature. Sono sconsigliati eyeliner e matite che contengano una quantità eccessiva d’alcool, per impedire le irritazioni.
Cosa pensi dei cosmetici naturali? I cosmetici biologici, naturali e a base di erbe, sono di grande tendenza, ma non differiscono molto dai prodotti tradizionali: al loro interno sono contenuti elementi chimici e conservanti, altrimenti l’articolo avrebbe una durata di circa 15 giorni. É fondamentale acquistare i cosmetici di un’azienda seria, che effettui analisi e utilizzi materie prime senza allergeni. Ancor meglio se si tratta di trucchi a base minerale, i migliori in commercio.
Quali sono le professionalità con cui un truccatore collabora nella sua quotidianità? Fotografi, hairstylist, stilisti, etc.
Come vedi l’inserimento di un truccatore in un’équipe composta da medici e psicologi quando vi sia una percezione negativa della propria immagine? Sarebbe un valido aiuto in molti casi. Ad esempio, per curare acne e punti neri, che tendono a scomparire quando il paziente è psicologicamente più tranquillo. Ho collaborato con i medici proponendo, tramite un tutorial, lezioni di trucco alle pazienti oncologiche dell’Ospedale Cannizzaro di Catania. Ho anche tenuto un corso di trucco artistico per aiutare le ragazze che soffrono di anoressia ad accettare il loro corpo. Molto utile è poi il make up camouflage che nasconde le cicatrici, gli angiomi e le cosiddette voglie di vino. Il trucco dona sicurezza.
Il make up rende più felici? Quando una donna è truccata, vestita e pettinata bene le si stampa il sorriso sul volto: è una reazione che noto sempre con le spose. Non c’è sensazione migliore che sentirsi dire da una cliente “Mi sento bella”. Qualche anno fa, ho truccato una donna non vedente, è stato molto emozionante. Terminata la seduta di make up, lei mi disse “Mi fai sentire bella. Per la prima volta mi stai facendo venir voglia di vedermi”. Ero felice.
Creativo ed estroso, sensibile e con un grande cuore, Maurizio Calcagno, con i suoi pennelli, riesce a trasformare ogni donna in un’opera d’arte.
Gli ingredienti trapanesi si trasformano in piatti stellati. Una magia che dura una sera.
I maghi? 5 chef provenienti da diverse parti d’Italia.
L’olio di Terre di Shemir è la pozione magica.
Luogo fatato: la cucina di Serisso 47. Ristorante gourmet di Gaetano Basiricò che ha accolto e riunito i colleghi stellati: Stefano Mazzone, del ristorante gourmet Rendez-Vous del Gran Hotel Quisisana di Capri; Michelangelo Citino, Chef del Michelangelo Restaurant a Linate; Pino Cuttaia, Chef bistellato di La Madia di Licata (Agrigento); Damiano Nigro, dello stellato Villa D’Amelia a Benevello (Cn), nelle Langhe. Questi protagonisti dell’arte culinaria, famosi per la loro cucina prestigiosa e ricercata che si propone di valorizzare il territorio, mettono a confronto le loro competenze, uniscono idee, tecniche e professionalità per creare piatti che incantano con semplici prodotti territoriali.
Ogni cuoco ha presentato un piatto. Tutto è iniziato la mattina, con la visita al mercato per scegliere gli ingredienti, poi, di sera la cena che ha stregato giornalisti ed esperti del settore. Agli straordinari piatti sono stati abbinati i nuovi vini di Terre di Shemir: l’Erede, un grillo, il Fedire, grillo e Zibibbo, e il Paradiso di Lara, un nero d’Avola spillato dalla botte.
L’evento è stato ideato nel 2011 dalla famiglia Pellegrino, titolare di Terre di Shemir, che continua a riunire chef di alto livello per far conoscere le eccellenze del territorio. Siamo a Trapani, a pochi passi dalla Torre di Ligny, una torre di avvistamento spagnola, risalente al 1671, e che si erge su una suggestiva scogliera da cui, guardando verso ovest, si scorgono le isole Egadi e il piccolo isolotto di Formica.
“La provincia di Trapani è la provincia più ventosa della Sicilia, ci pensa il vento a spazzare via con facilità i parassiti e l’umidità che causano le malattie alle viti – spiega l’enologo Dino Croce che, con Irene Pellegrino, ha dato vita a una piccola società per l’imbottigliamento: ‘Terre di Shemir di Irene’ –. Quindi interveniamo chimicamente solo se strettamente necessario”.
Francesco Pellegrino quasi voleva abbandonare la produzione del vino per concentrarsi in quella del ‘prezioso’ olio, e invece: cosa succede? Succede che mi sono preso una grande responsabilità: portare avanti questa sfida e il sogno nel cassetto di Ciccio Pellegrino. E quindi oltre ad essere enologo sono anche proprietario, insieme a Irene che è enotecnica.
Al momento i vini sono 4: un Grillo in purezza, un Grillo Zibibbo e 2 Nero d’Avola. Uno affinato in barrique e l’altro in acciaio. Poi il prossimo anno vedremo di fare anche qualche passito, perché la Sicilia è terra di passiti. Molti vanno controcorrente con bollicine, spumanti, invece io voglio rispettare il territorio.
I nostri vini si caratterizzano per la loro eleganza, più che per la potenza. Con Irene abbiamo scelto di dare maggiore risalto al frutto e di non utilizzare molto legno. Adesso c’è una minor tendenza a usare le barrique. La tecnica di vinificazione fa la differenza perché i nostri vini fermentano a temperature più basse e quindi i profumi sono diversi.
La maggior parte del lavoro si fa in vigna durante la raccolta, che avviene a mano, per le pressature si usano presse soffici, così i profumi e i mosti non sono ossidati e ritroviamo questi sentori che rendono eleganti i vini.
CHEF GAETANO BASILICO’
Il padrone di casa ha servito come entrée un uovo sbattuto, qualeddu fritto, e pane tostato all’aglio di Nubia. Il qualeddu è il “ravizzone”, una verdura selvatica che nasce spontaneamente nelle campagne del trapanese. E poi olio Trappitu Delicato, abbinato al vino Grillo Erede.
Quanto sono importanti le materie prime?
Non penso che ci possa essere produzione senza buona qualità di materie prime. La qualità è basilare. La scuola siciliana usava l’agrodolce più che altro per conservare o recuperare un pezzo di carne o pesce di giorni prima. Noi abbiamo ripreso questa tecnica, ma non per camuffare, per esaltare, anzi, il gusto di una materia prima di grande qualità.
Da quanto tempo utilizza gli oli Pellegrino?
Un amico comune mi ha presentato Pellegrino nel 2000, ho conosciuto così la sua azienda e sono entrato nella famiglia. Una famiglia in cui non si sente il peso del produttore.
Stasera stiamo degustando i vini dell’azienda agricola Terre di Shemir. Per bere è sufficiente il piacere fisico, per degustare ci vogliono anche intelligenza e competenza. E per lei, che cos’altro è necessario?
La stessa passione con cui un produttore crea un suo prodotto: anche chi beve deve aggiungere passione, l’intelligenza non basta.
Lei non si definisce uno chef, né un cuoco, ma un cuciniere. Ci vuole spiegare perché?
Mio padre aveva una licenza per trattoria e pizzeria di paese, e su quella si leggeva “autorizzazione per la produzione di cibi cotti”. Ho ancora quel ricordo, e per questo mi reputo uno che prepara cibi cotti.
5 chef riuniti in un’unica cucina e dallo stesso olio. Com’è andata?
Meravigliosamente bene, perché lo scopo è stato quello di riunire 5 amici per proporre dei piatti, quindi non c’è il problema della competizione. Ogni preparazione viene assaggiata da tutti, e ci si consiglia a vicenda.
Degustare è un’arte, e tutto ciò che è sottoposto ai nostri sensi si degusta: un quadro, l’amore, la vita. Per lei cosa significa degustare?
Degustare un cibo significa tradurre, trasferire, scomporre i vari fattori e andarli a collocare nelle varie parti della persona: mente, fisico, cuore. È proprio una scomposizione, e le stesse sensazioni te le può dare anche l’arte.
CHEF PINO CUTTAIA, bistellato di La Madia di Licata (Agrigento), Vicepresidente di “Le Soste di Ulisse”, e tanto chiacchierato per aver cucinato al pranzo delle first lady durante il G8 2017.
Il suo ingrediente segreto?
La memoria. È l’ingrediente che più di ogni altro caratterizza la mia concezione della cucina, che non manca mai nei miei piatti e che consente di riconoscerli. Ognuno dei miei piatti contiene sempre almeno un pizzico di ricordi. Ognuno dei miei piatti, con la sua semplicità, prova a raccontare una storia.
Ci descrive il suo piatto?
Ho voluto raccontare il territorio presente. L’idea è stata di mettere tutto quello che vive sotto terra: il tartufo, il topinambur, la cipolla, l’aglio. Al posto della lumaca, poi, ho messo dei cannolicchi di mare, che hanno quasi il gusto e la consistenza della lumaca, e li abbiamo avvolti in una foglia. Sulla lumaca ci sono parecchi pregiudizi, e ho voluto un piatto più popolare…
La Sicilia è una regione dove storie, società e ambienti naturali si fondono. In particolare, il cibo è uno degli elementi culturali che hanno aiutato a preservare l’unicità dell’isola. Influenze provenienti da varie parti del mondo si sono combinate nel tempo, creando una varietà di tradizioni culinarie che non ha eguali, frutto di duemila anni di storia e contaminazioni.
CHEF MICHELANGELO CITINO, del Michelangelo Restaurant a Linate.
Ha iniziato molti anni fa con Gualtiero Marchesi, da lì è passato con Davide Oldani, che faceva parte della sua squadra, e ha effettuato tutto il suo percorso con lui tra Quisisana e Giannino a Milano. Poi, sempre tramite Oldani, prima l’esperienza francese in uno stellato parigino di Alain Ducasse, e oggi in My Chef, azienda di ristorazione commerciale e competitor di Autogrill. È executive chef e si occupa di sviluppare format, nuove ricette e anche dei panini gourmet.
Citino seguiva Oldani in EXPO e nei corner Ferrari spazio bollicine tra Malpensa, Linate e Roma Fiumicino. A Casa Milan si occupava dei pranzi rossoneri del Presidente Silvio e di Barbara Berlusconi. In Casa Milan e in altri locali di alta gamma, per ultimo Larte di Via Manzini a Milano, è impegnato nello sviluppo del menù e nella formazione.
Ogni locale ha il suo chef e la sua identità. Citino si occupa dello start up dei menù, provati e tastati con i vari chef, che poi agiranno autonomamente.
Calabrese ma di adozione lombarda ha proposto un riso mantecato con cardamomo e limone, dragoncello, ricotta di pecora, alici e gambero rosso. Ci descrive il suo risotto?
Questa sera ho preparato un riso pensato sulla base di un classico siciliano: il cuscus, piatto con influenze africane e caratterizzato da una serie di ingredienti e odori derivanti dalle spezie. Così il mio riso è ricco di spezie, di profumi, di aromi ed è mantecato con cardamomo e buccia di limone. Sopra il riso 4 salse: alla ricotta rigorosamente ovina, al dragoncello, alle acciughe, alle teste di gamberi rossi. A completare, 2 o 3 pezzettini di gambero rosso a crudo! Una connotazione particolare la dava il cuscus soffiato cosparso sul riso per conferire quella parte croccante che mancava.
5 chef riuniti in un’unica cucina, uniti anche dall’olio Pellegrino. C’è rivalità?
Ho inventato oggi questo risotto e ho conosciuto in quest’occasione l’ottimo olio. Si vedono l’amore e il lavoro della famiglia che ci sono dietro.
Ritengo che adesso non ci siano le invidie che c’erano in passato. Sono andate scemando, poi noi ci conosciamo tutti da moltissimi anni quindi non ci può essere rivalità. Abbiamo cucinato scherzando, e simpaticamente ci siamo presi un po’ in giro, ci siamo consigliati. Ad esempio, la salsa con la testa di gambero è stato Damiano a suggerirmela.
Il degustare è un’arte e tutto ciò che è sottoposto ai nostri sensi si degusta: un quadro, l’amore, la vita. Per lei cosa significa degustare?
Per me degustare può essere semplicemente un pensiero. Prima di degustare, si ragiona e si riflettere su un progetto o su un piatto che si vuole portare a termine. Non si degusta semplicemente con il palato. Si degusta prima con la mente, perché dietro ogni buon risultato c’è un’attenta riflessione.
Quanto sono importanti le materie prime?
Essenziali. Il risultato finale si ottiene solo con materie prime di alta qualità. “Povera” non vuol dire non di qualità. L’acciuga può essere povera ma di qualità. La qualità è fondamentale. La qualità è legata anche alla stagione, in quanto ogni frutto o prodotto offertoci dalla terra ha un suo periodo di maturazione nella forma, nella consistenza e conseguentemente nella qualità.
CHEF STEFANO MAZZONE, ristorante gourmet Rendez-Vous del Gran Hotel Quisisana di Capri.
I suoi genitori sono siciliani, lui è nato a Treviso e ha girato diverse cucine in Italia. È a Capri da 10 anni.
Una collaborazione di 5 Chef con esperienze diverse. Cosa ci racconta?
Esperienze diverse, ma comuni. È un momento di amicizia tra colleghi che si conoscono da diversi anni. A unire il gruppo, Ciccio, Lara di Terre di Shemir e i loro prodotti.
C’è rivalità tra voi chef?
La rivalità esisterebbe se ci fosse qualcuno di bravo, qui di bravo non ce n’è nessuno. Tutti scarsi e tra scarsi non ci può essere rivalità (ride).
Qual è il piatto proposto?
Il pesce. Che abitualmente i miei colleghi preparano a casa e cucinano prima. A me piace andare al mercato e acquistare ciò che trovo. Stasera un po’ di Sicilia: una fettina di pesce spada, leggermente panata in padella come si fa nel palermitano, e poi un agretto di pomodorini marsalesi con una maionese leggera aromatizzata all’origano.
Capri/Sicilia, Quali similitudini dal punto di vista alimentare e delle materie prime.
Alla fine ci affacciamo tutti sul bacino del Mediterraneo, con la dieta mediterranea che, non dimentichiamolo, è nata nel salernitano, in questa zona bellissima, grazie a uno studioso americano che negli anni 40/50 e l’ha per la prima volta catalogata. Sicilia e Campania appartengono allo stesso bacino meridionale e i prodotti sono quasi gli stessi. Era il Regno delle due Sicilie, e in cucina ci sono aspetti comuni.
Il piatto che di solito preferisce cucinare?
Quello proposto stasera. È nel mio menù da tanti anni, nato qua in Sicilia, perché prima di essere a Capri, dodici anni fa vivevo qua.
Perché l’olio Pellegrino e i vini Pellegrino?
I vini Pellegrino sono nati quest’anno, diciamo che questo è l’anno zero. Io li ho assaggiati e sono entusiasta. Poi insieme alla sommelier abbiamo scelto di abbinare al pesce spada un Grillo: L’Erede
Perché l’olio Terre di Shemir?
Ci siamo scoperti 15/16 anni fa e non ci siamo più lasciati.
CHEF DAMIANO NIGRO, Executive chef del Ristorante di Villa D’Amelia, nelle Langhe.
Originario di Brindisi e piemontese di adozione. Ha iniziato 30 anni fa a Courmayeur come lavapiatti. Ci racconta il suo percorso?
Sono stato poi promosso a lava pentole: cioè sei dentro la cucina e lì conosci i cuochi che non puoi contraddire, una gavetta che ti insegna a stare al tuo posto nella vita. Li vedevo correre a destra e a sinistra con il loro grandi cappelli e restavo affascinato dalle loro presentazioni. Col tempo, lo chef ha notato il mio interesse e mi ha valorizzato. Da lì sono andato in Germania e ho lavorato con i tedeschi, poi sono tornato in Italia con lo chef pluristellato Gualtiero Marchesi, a Milano. Sono stato poi a Moena, con lo stellato Alfredo Chiocchetti, poi nello Yorkshire, in Inghilterra, in un 3 stelle francese. La mia ambizione giovanile mi portava a lavorare e non mi affliggevo per la lontananza. Ho avuto sempre grande tenacia. Dopo 6 mesi mi hanno promosso e preparavo i secondi. Da lì sono passato in cucina con il grandissimo Marco Pierre White e ho fatto 4 anni con lui. Poi sono andato a Parigi, e successivamente ho cercato di rientrare in Italia, ma non ce l’ho fatta. In seguito sono tornato da Marco Pierre White che mi ha permesso di gestire uno dei suoi ristoranti. Poi Spagna, e dopo finalmente Italia, dove ho cominciato con lo chef stellato Enrico Crippa nel Ristorante Piazza del Duomo ad Alba, e da lì mi sono trasferito con la mia compagna a Villa D’Amelia. Quest’anno festeggiamo 11 anni a Villa d’Amelia, dopo 4 abbiamo conquistato la prima stella e ora cerchiamo di conquistare la seconda. Questa è in breve la mia storia.
Per fare lo chef, basta la passione?
Noi facciamo un lavoro molto duro. Dire che dopo 30 anni basta solo la passione non è realistico. Ci vogliono anche testa e carattere per gestire i ristoranti. L’esperienza e la maturità ti aiutano nel dare un occhio sui costi. Un ristorante è come un’azienda, e come tale deve funzionare.
5 chef riuniti in un’unica cucina e dallo stesso olio. Com’è andata?
È andata molto bene. Io apprezzo queste cose perché c’è sempre un incrocio di pensieri e si ricavano nuove nozioni, conosciamo nuovi prodotti. Il piatto proposto da me era un bollito affumicato, quindi Langhe, ma incrociato con il gusto siciliano. La carne bollita infatti è stata affumicata con la legna di ulivo, ed era accompagnata poi da salsa tartara e salsa verde, e da una purea di patate. L’ho poi decorata con scaglie di bottarga per dare sapidità e per arricchirla col gusto del mare. Un bricco con del brodo da bere completava il piatto.
Da quanto tempo utilizza gli oli di Terre di Shemir?
Li conosco da 11 anni circa, e li utilizzo da 5 anni.
Quanto sono importanti le materie prime?
Molto. C’è anche chi le elabora, però avere materia prima di alta qualità è sicuramente se non al primo, al secondo posto.
In abbinamento ai piatti, i vini di Terre di Shemir, frutto anche dell’enologo Dino Croce. Per bere è sufficiente il piacere fisico, per degustare ci vogliono pure intelligenza e competenza. E per lei cos’altro?
La conoscenza pratica, come in tutte le cose. Parlo per la mia esperienza personale.
Il rito dell’aperitivo è ormai una moda irrinunciabile, una vera e propria occasione di incontro e socialità diffusa tra ogni fascia di età. Non c’è persona che, dopo una dura giornata di lavoro, non decida ogni tanto di concedersi un drink con amici o colleghi. Ciascuna città vive questo momento di piacere e di svago in modo diverso, senza dimenticare l’importanza del bere responsabile e in tutta sicurezza, dando così all’aperitivo una marcia in più.
Il bartender è una figura professionale fondamentale, che non si limita esclusivamente a preparare e a servire i cocktail, bensì è un punto di riferimento indispensabile tra il cliente e il prodotto servito. Proprio per tale motivo, Campari ha deciso di creare la Campari Academy, una scuola professionale, fondata nel 2012, che forma barman con lo scopo di realizzare cocktail indimenticabili e diffondere la cultura del bere responsabile.
“Unire il cibo e il consumo sano di alcool è un aspetto molto importante che differenzia la tradizione del bere in Italia dagli altri Paesi del nord e centro Europa – precisa Andrea Neri, Senior Marketing Director Gruppo Campari –. Per tale motivo lavoriamo spesso con mixologist e bartender qualificati sul brand Aperol e Campari”.
Campari si divide in tre gruppi. “Il principale è quello degli aperitivi, che rappresenta il mercato più importante in Italia con: Campari, Campari Soda, Aperol, Crodino e Crodino Twist – riferisce Andrea Neri –. I dopo pasto sono il secondo settore. Gli amari classici Averna, Braulio, e Cynar, o i più dolci come il Mirto Zedda Piras e le grappe sono i dopo pasto più diffusi nella penisola. Vodka Skyy, Barbon, White Turkey, Whisky Glend Grant, Rum Appleton, Gin Bulldog, Tequila Espolon sono i marchi della terza linea più classica: gli alcolici distillati e invecchiati”.
Ogni anno Aperol Spritz inaugura la stagione estiva con eventi legati alla socialità, al piacere di mangiare e di stare insieme con il sorriso. “Everybody’s Welcome, infatti, è una piattaforma di comunicazione che abbiamo lanciato nel 2014 con lo scopo di sovvertire l’idea degli eventi esclusivi, solitamente rivolti a poche persone – racconta il Senior Marketing Director –. Abbiamo scelto l’Anfiteatro romano a Lecce, il Maschio Angioino a Napoli, la Reggia di Caserta, il Teatro Greco nell’area archeologica di Segesta in provincia di Trapani, il Teatro Burri a Milano e li abbiamo aperti a migliaia e migliaia di persone. Everybody’s Welcome rispecchia l’anima inclusiva e sorridente dello Spritz”.
Aperol Spritz è uno dei cocktail più diffusi nel mondo, divenuto ormai un vero e proprio fenomeno culturale. Leggero, frizzante e rinfrescante, ha ricevuto la sua consacrazione in occasione dell’ultimo congresso annuale dell’International Bartenders Association (IBA) a Varsavia. La giuria di esperti ha infatti inserito lo “Spritz Veneziano” tra i cocktail più conosciuti e serviti dai barman professionisti di tutto il mondo.
Il nome Veneziano è legato all’origine stessa dello Spritz. “La sua nascita coincide con l’occupazione austriaca in Veneto durante il 19esimo secolo. L’origine del nome è riconducibile al verbo tedesco spritzen, “spruzzare”, che richiamerebbe il gesto di aggiungere l’acqua al vino – racconta Andrea Neri –. Soldati, commercianti, diplomatici e lavoratori dell’impero Asburgico d’istanza in Veneto, non erano a loro agio con la gradazione troppo elevata dei vini veneti rispetto al tenore alcolico a cui erano abituati. Per questo motivo veniva richiesto agli osti locali di spruzzare un po’ d’acqua all’interno dei vini per renderli più leggeri”. Se l’origine della parola Spritz è austriaca, l’abitudine di mescolare al vino un po’ d’acqua è un’usanza tipicamente veneta.
Una prima evoluzione dello Spritz è arrivata nei primi anni del 1900, con la diffusione dei sifoni per l’Acqua di Seltz. Il seltz, per definizione, è un’acqua molto gassata che si accompagna molto bene nella preparazione di cocktail. A differenza dell’acqua minerale gassata, nella quale le bollicine vengono aggiunte all’imbottigliamento, l’acqua di Seltz viene addizionata tramite una piccola bomboletta di gas collegata alla bottiglia. Grazie all’acqua di Seltz, proveniente dalla città di Selters era possibile rendere frizzante anche uno Spritz composto da vini fermi.
Intorno agli anni ’20 e ’30 del ‘900, tra Padova e Venezia, si è pensato di unire a tale usanza l’Aperol. Nasce, così, la ricetta originale di Aperol Spritz, immortale e fortemente radicata nel territorio veneto e oggi apprezzato in tutto il mondo nella sua bilanciata ricetta: 3 parti di Prosecco D.O.C, 2 parti di Aperol e una di soda.
“Dal Veneto, la cultura di Aperol Spritz si è imposta ormai in tutta Italia, ma non solo – afferma Neri –. Il basso contenuto alcolico, il gusto leggermente frizzante e rinfrescante e il colore arancio vivace, lo rendono il drink ideale da gustare con gli amici, prima di un pasto o all’ora dell’aperitivo. Solare e brioso, Aperol Spritz ha l’inconfondibile e gradevole sapore italiano che lo rende un aperitivo di culto anche all’estero. Lo Spritz è diventato un fenomeno internazionale e sociale”.
Dai Navigli milanesi ai locali con vista mare, i cocktail da gustare sono infiniti, ma come dichiara Andrea Neri “è meglio un drink in meno, ma di alta qualità. Fatto bene, con una storia e ingredienti ricercati”.
Secondo la mitologia, il tartufo nasce da un fulmine scagliato da Giove in prossimità di una quercia. Il prezioso fungo vive infatti grazie al nutrimento ricavato dalle radici degli alberi, e attende l’acqua per cedere alle piante elementi minerali. Non ha rami, foglie e tronco. È figlio della terra e del buio. Cresce nell’oscurità del terreno e non si ciba di sole.
La Toscana è una delle regioni italiane più importanti per la produzione di tartufi. La raccolta riguarda soprattutto il pregiato tartufo bianco, e in misura minore altre specie presenti sul territorio. In questa regione sorge l’azienda Stefania Calugi. Una realtà che nasce dall’esperienza di quattro generazioni di tartufai, e si evolve in forma aziendale per trasformare sapori e gusti toscani in ricette autentiche e genuine, proprio come racconta la stessa Stefania Calugi, oggi proprietaria di tre tartufaie di Tuber Magnatum convertite in biologico sulle colline Samminiatesi.
Quando nasce l’azienda? Nasce nel 1987 da un sogno di mio padre, Renato, da sempre appassionato dei preziosi funghi, lui matura negli anni la voglia di creare un’azienda vocata al mondo del tartufo. Così ad appena 18 anni, tra il 1988 e ’89 do vita al primo laboratorio: insieme alla vendita del prodotto fresco, proponiamo anche il conservato. L’azienda cresce in modo veloce e tra il 1992 e il ’93 ci trasferiamo in un laboratorio più grande, di 400 mq. Qui si assiste all’aumento delle quantità e del di numero dei prodotti. E si propone pure l’affettato di tartufo, di largo consumo per la ristorazione.
Quali sono le materie prime lavorate dall’azienda? Sono 100% made in Italy? La maggior parte della verdura, della frutta e dei tuberi utilizzati sono italiani, tranne i porcini e altre categorie di funghi che provengono dai paesi dell’est Europa, in particolar modo dalla Bulgaria. Per il 90% i tartufi bianchi giungono dalle colline Samminiatesi o dalle Crete senesi, mentre le varietà presenti in quantità minore provengono da: Molise, Abruzzo, Umbria, Basilicata e Piemonte. Le verdure, invece, sono toscane, pugliesi e laziali. Noi produciamo una piccola, ma buona, quantità di olio extra vergine d’oliva, piante aromatiche, fichi, cipolle, cavoli, patate e zucchine.
Creiamo circa 150 referenze Made in Italy. Abbiamo una linea di prodotti Bio tartufo e altre referenze semplici come: sughi a base di pomodoro e gelatina di vino toscano. La linea Bio tartufo consente di realizzare un menù completo, dall’antipasto al dolce. Quest’anno abbiamo lanciato due nuove referenze a marchio green con il valore aggiunto del Vegan, per raggiungere una clientela che ragiona nel massimo rispetto del mondo animale.
Ci descrive i processi di trasformazione della filiera che consentono di ottenere un prodotto finito? Le materie prime sono coltivate, o acquistate da fornitori selezionati. Giunte in azienda, vengono stoccate in celle frigo e pulite attraverso un lavaggio immediato. Le verdure sono poi tagliate, cotte e inserite in vasi sterilizzati o pastorizzati in base al PH del prodotto. Etichettatura, inscatolamento e stoccaggio in magazzino sono le ultime fasi del processo produttivo.
Le fasi di controllo qualità e tracciabilità in cosa consistono? Il controllo qualità consiste nelle misurazioni del PH prima di invasare il prodotto, e nel soffiaggio dei vetri per ridurre al minimo il rischio di impurità all’interno. Dopo la stabilizzazione, mettiamo alcuni vasi in un incubatore a 40° per 15 giorni. Se i tappi non si gonfiano svincoliamo i lotti realizzati per la vendita. Tutti questi controlli avvengono all’interno dell’azienda, affidiamo poi al nostro laboratorio esterno le analisi periodiche degli articoli.
Ai prodotti e all’azienda sono state riconosciute delle certificazioni? Sì, siamo certificati BIO e glutenfree, abbiamo ottenuto l’Autorizzazione sanitaria per il nuovo bollo CE. Entro l’estate contiamo di ricevere le attestazioni: BRC (Global Standard for FoodSafety) e IFS (International Food Standard), uno standard che individua gli specifici elementi di un sistema di gestione focalizzato sulla qualità e la sicurezza igienico-sanitaria degli alimenti.
Tra gli articoli proposti: Aceto Balsamico di Modena IGP e sale di Volterra al tartufo. Quali sono le proprietà di questi alimenti? Il primo è un aceto IGP giovane con aroma di tartufo e testimone, cioè un pezzetto dello stesso. Gradevole, ed essenzialmente idoneo per una clientela turistica.
Il Sale di Volterra è ricristallizzato. I giacimenti sotterranei vengono allagati con acqua dolce che, sciogliendo il sale, si trasforma in una soluzione salina concentrata al 33%, poi depurata a 80 gradi centigradi. La soluzione depurata viene inviata ai cristallizzatori, alti 40 metri, dove le e temperature ottenute dalla compressione del vapore la portano a 130°, facendo evaporare l’acqua presente nella soluzione e lasciando il sale.
Questo processo è noto come ricristallizzazione del sale. Il sale ancora umido viene asciugato e destinato al confezionamento di diverse tipologie, volte a soddisfare tutte le esigenze del mercato. Il nostro sistema di produzione, unico in tutto il territorio nazionale, rende il Sale di Volterra il più puro d’Italia. Il sale al tartufo è utilizzato per salare qualsiasi piatto: dalle insalate agli arrosti, al pesce e alle patatine al tartufo.
In quali punti vendita sono acquistabili gli articoli Stefania Calugi? Il primo nostro punto vendita è posto sopra lo stabilimento produttivo, per proporre al cliente un affascinante percorso alla scoperta del tubero misterioso. Alcune boutique e gastronomie sono presenti a San Gimignano, Volterra, Tavarnelle, Val di Pesa, Greve in Chianti, Panzano, Firenze, Siena, Montalcino, Montepulciano, Pienza, Lucca, Massa Carrara e in Versilia.
I prodotti finiti sono esportati anche all’estero? Sì, esportiamo in Svizzera, Austria, Francia, Portogallo, Spagna, Germania, Danimarca, Olanda, Svezia, Russia, Polonia, Grecia, Texas, New York, Canada, Costa Rica, Giappone, Cina e Corea. Ci stiamo muovendo anche in altri stati perché abbiamo tanta voglia di crescere, in quanto percepiamo l’entusiasmo dei clienti che si innamorano dei nostri prodotti.
I tartufi instaurano il loro rapporto di simbiosi con diverse varietà di piante. Con quali alberi? Pioppo nero e bianco, Roverella, Leccio, Quercia, Salice, arbusti bassi, Ginestrella etc.
Quali terreni sono adatti per lo sviluppo del tartufo? I terreni sabbiosi, di tufo, di argilla. In base al tipo di habitat, il tartufo assume profumazioni differenti e forme più o meno rotonde.
I tartufi nascono sia a livello del mare che in zone montane. Ci avvaliamo di cani addestrati alla ricerca del tubero e usiamo la vanghetta. Chiaramente ci vogliono poi la conoscenza dei luoghi, l’abilità e l’astuzia del tartufaio, altrimenti il raccolto è mediocre.
In quale periodo dell’anno avviene la raccolta? Il tartufo copre quasi la totalità dei dodici mesi dell’anno. Ogni stagione ha il suo frutto. In base al clima e alle piogge, abbiamo delle varianti nella quantità e nella qualità della raccolta. Solitamente un’annata povera di acqua fornisce un frutto con aromi più intensi, ma molto scarso nella quantità, viceversa annate con fenomeni di alluvione donano frutti molto insipidi. La cosa cambia notevolmente nei diversi terreni, anche se la distanza è di pochi chilometri. Fondamentale è avere una buona precipitazione nei mesi di giugno, luglio e agosto. Se ci sono queste combinazioni l’annata sarà buona.
Come si sceglie un tartufo fresco? Il fungo deve essere: annusato per trovare il nostro personale grado di emozione, toccato per capirne la compattezza, e privo di terra, ma possibilmente non lavato.
Quali sono le proprietà benefiche? Si dice che sia afrodisiaco. Ha proprietà antiossidanti e ci sono studi che sperimentano l’applicazione delle sue molecole per cure antitumorali.
Come si conservano i tartufi? Semplicemente in carta assorbente, chiusi in un contenitore ermetico. Ogni due giorni si asciuga il contenitore e si cambia la carta. Il periodo di mantenimento varia in base al grado di maturità del tubero. Occorre quindi imparare a distinguere il frutto acerbo da quello maturo.
Come si puliscono? Sotto l’acqua corrente, con uno spazzolino che va strofinato delicatamente per togliere i residui di terra. Quando sono asciutti possono essere grattugiati sulle varie portate.
Bianco pregiato TuberMagnatumPico, Nero dolce TuberMelanosporum, tartufo Nero TuberUncinatum e tartufo bianchetto TuberalbidumPico sono le principali varietà di tartufi commestibili. “Risotto al tartufo, tagliolini al tartufo, uova al tartufo, filetto al tartufo e gelato alla crema col tartufo sono alcune delle pietanze che utilizzano il prezioso fungo. Il tartufo può essere usato anche in settori non alimentari, nella cosmesi per esempio: sono di grande tendenza le creme con molecole di tartufo, per le note proprietà antiossidanti a cui ho accennato”, precisa Stefania Calugi.
Il profumo intenso e penetrante, le virtù culinarie e benefiche, e i noti poteri afrodisiaci incoronano il tartufo come il “Re della tavola”.
Materiali ricercati e vintage, forme essenziali e innovative, colori brillanti e tropicali caratterizzano la vasta collezione di calzature Gioseppo Spring/Summer 2017. L’azienda spagnola si prende cura di ogni dettaglio attraverso la selezione delle migliori pelli, tessuti e materiali naturali per creare collezioni uniche. Un ventaglio di proposte adatte dall’alba al tramonto: dalle futuristiche sneakers per il tempo libero, ai sandali boho-chic passando per la linea in iuta e le zeppe in legno.
Sul tavolo di disegno comincia il cammino di tutti gli accessori Gioseppo. Tendenze ed esperienze si uniscono formando i modelli che compongono ogni nuova collezione. Da 26 anni, infatti, il team di 8 designer raccoglie gli ultimi trends per dar vita a un prodotto con stile, per poi metterlo ai piedi di migliaia di donne, uomini e bambini in tutto il mondo.
La realtà imprenditoriale nasce ad Alicante nel 1991 e deve il suo nome a “Giuseppe”, appellativo con cui era chiamato da bambino il primogenito del fondatore José Navarro che rimane una figura di riferimento, pur non occupandosi più direttamente dell’attività. Come nelle migliori tradizioni, Gioseppo è ora guidata dai quattro figli, e ciascuno ricopre una carica precisa all’interno dell’azienda: dal responsabile dell’area marketing al commerciale, dal design alle risorse umane. “Quando mio padre creò Gioseppo, ha iniziato da zero con impazienza ed entusiasmo. Venticinque anni doposiamo un team di più di 150 persone e la nostra famiglia ne costituisce le basi”, racconta José Miguel Navarro, Vice Presidente & Brand Manager di Gioseppo.
La famiglia Navarro, inoltre, s’interessa delle tematiche sociali. Esperanza Pertusa, moglie di José Navarro, completa il quadro familiare con la gestione di un progetto chiamato Fondazione Esperanza Pertusa, che si dedica a iniziative sociali, di sviluppo e di sensibilizzazione per aiutare persone disabili o con speciali bisogni. Una grande attenzione è rivolta anche ai dipendenti. L’azienda, infatti, dispone di una sala relax dove è possibile riposare in pausa pranzo, con l’opportunità di usufruire di massaggi alla cervicale ogni settimana a un prezzo irrisorio. L’orario lavorativo è molto flessibile, soprattutto per le donne con bambini. La presenza di grandi finestre dalle quali entra la luce naturale contribuisce a mantenere il buon umore, dando vita a un luogo di lavoro moderno che crea le condizioni ideali per sviluppare progetti originali in completa libertà.
Per consentire al personale di lavorare al meglio e serenamente, è necessario un ampio spazio in cui ospitare eventi. È nata così, Love Work Place, una rinnovata sede aziendale autosufficiente, grazie all’energia ricavata da pannelli solari e un sistema di raccolta dell’acqua piovana.
Dal 2000, inoltre, è stato riconosciuto a Gioseppo il Certificato ISO 9001, emesso da Bureau Veritas che verifica il sistema di controllo qualità nella fabbricazione di tutti i prodotti.
Negli ultimi anni, Gioseppo è cresciuta molto all’estero, e oggi opera in 60 paesi e in più di 6000 negozi. L’azienda ha anche aperto una catena di punti vendita in Spagna e all’estero con l’insegna “Have a Nice Day!”. L’obiettivo? “Continuare a crescere come marchio ottimistico e di qualità insieme ai nostri consumatori”, riferisce José Miguel Navarro.
Come affermava Pablo Picasso “l’ispirazione esiste, ma deve trovarti già a lavoro”, infatti dall’ispirazione, dall’impegno e dalle idee originali nascono le collezioni frizzanti, spiritose, ma anche raffinate ed eleganti di Gioseppo.
Il 26 giugno: serata unica nel suo genere. Il Parco del Grand Hotel di Montegrotto Terme ospita la settima edizione di “A Tavola con le Stelle del Nordest”, un evento benefico che richiama la guida “A Tavola nel Nordest” ideata e curata per diversi anni dal giornalista enogastronomico Giovanni Chiades.
Ai fornelli 27 chef stellati, emergenti o in “odor di stella”, provenienti dal Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige ed Emilia Romagna, tutti uniti con lo scopo di devolvere in beneficenza l’intero ricavato della serata. Ogni partecipante, incluso chi ospita la manifestazione, rinuncia al rimborso spese, e l’incasso della serata viene devoluto alla Fondazione Più di un Sogno Onlus.
L’associazione propone fini solidali nei settori della beneficenza, della tutela dei diritti civili, dell’assistenza sociale e socio-sanitaria. “Fondazione Più di un Sogno Onlus” rivolge le proprie attività a persone con disabilità intellettiva e sindrome di Down di ogni fascia d’età, sostenendo anche le famiglie attraverso un Progetto di Vita che comprende tutti gli aspetti dell’esistenza umana.
La kermesse riunisce chef e importanti aziende vinicole provenienti dal Nordest, dando così la possibilità agli ospiti della serata di degustare, in un percorso libero, piatti e vini di alta qualità preparati e proposti direttamente davanti ai loro occhi dai cuochi e dai produttori stessi. Gli ospiti muniti di bicchiere al collo, possono spostarsi da una postazione di cucina all’altra e da un banco di assaggio a un altro, degustando in totale rilassatezza con la possibilità di interloquire direttamente con gli chef.
Il costo a persona è di 80,00 euro, mentre per chi volesse riservare un tavolo in esclusiva il costo è di 100,00 euro. Nella quota sono comprese le degustazioni dei vini delle cantine che offrono le loro migliori selezioni e tutte le eccellenze gastronomiche dei produttori presenti.
Simone Lucci
Gli chef:
Mattia Barbieri (Enoteca Centrale – Mestrino – PD); Davide Botta (L’artigliere – Isola della Scala – VR), Francesco Brutto (Undicesimo Vineria – Treviso / Venissa – Mazzorbo – VE); Lionello Cera (Antica Osteria Cera – Campagna Lupia – VE); Lorenzo Cogo (Ristorante El Coq – Vicenza); Luigi Dariz (Ristorante Da Aurelio – Passo Giau – BL); Pierluigi Di Diego (Ristorante Il Don Giovanni – Ferrara); Franco Favaretto (Baccalàdivino – Mestre – VE); Alessandro Favrin (La Corte del Lampone – Hotel Rosapetra – Cortina d’Ampezzo – BL); Terry Giacomello (Ristorante Inkiostro – Parma); Alfio Ghezzi (Locanda Margon – Trento); Stefano Ghetta (L Chimpl da Tamion – Vigo di Fassa – TN); Achille Leonardelli (Cà dei Boci – Baselga di Pinè – TN); Simone Padoan (Pizzeria I Tigli – San Bonifacio – VR); Francesco Paonessa (Al Capriolo – Vodo di Cadore – BL); Giancarlo Pasin (Alla Pasina – Dosson di Casier – TV); Leandro Luppi (Ristorante Vecchia Malcesine – Malcesine – VR); Marco Perez (Amistà 33 – Corrubbio di Negarine Valpolicella – VR); Renato Rizzardi (La Locanda di Piero – Montecchio Precalcino – VI); Matteo Rizzo (Ristorante Il Desco – Verona); Martino Scarpa (Osteria Ai Do Campanili – Cavallino-Treporti – VE); Andrea Rossetti (Fuel Ristorante in Prato – Padova); Piergiorgio Siviero (Lazzaro 1915 – Pontelongo – PD); Maria Grazia Soncini (La Capanna di Eraclio – Codigoro – FE); Marco Talamini (La Torre – Spilimbergo – PN); Luca Veritti (Met Restaurant – Venezia); Roberto Zanca (Aquasalata Feeling Taste – Isola Verde di Chioggia – VE).
I viticoltori dopo una lunga giornata di lavoro in campagna arrivano in cantina con trattori e camioncini carichi di grappoli di Nero d’Avola, Catarratto, Grillo.
L’enologo Francesco Rigirello, dopo l’attento controllo sulla qualità delle uve, esegue delle analisi chimiche per indirizzarle verso il miglior processo di vinificazione che viene eseguito insieme al consulente enologo Vincenzo Leone.
La diraspatrice è in funzione e separa il raspo dagli acini. I raspi, poi, finiranno in campagna come fertilizzante, le vinacce, invece, in distilleria per produrre la grappa.
Tutto questo avviene a Terre di Giafar sotto la supervisione di Antonino Spezia, presidente della cooperativa agricola che è affiancato dall’energica moglie Monia, Direttrice della cantina.
Gli stabilimenti sorgono all’interno del centro urbano di Paceco, un territorio viticolo in provincia di Trapani. La cantina dispone di tecnologie all’avanguardia per la lavorazione delle uve, la fermentazione dei mosti e l’affinamento dei vini. I moderni serbatoi in acciaio inox e le tradizionali vasche di cemento, inoltre, consentono la realizzazione di pregiati vini che vengono lasciati affinare in barriques nei sotterranei.
Terre di Giafar lavora principalmente uve provenienti da vitigni autoctoni e il bianco di Nera uno dei vini più rinomati realizzati dall’azienda siciliana. Un vino dal colore bianco, ma che al palato evoca i tipici aromi delle uve rosse. “Ad occhi chiusi si avvertono i profumi e gli aromi del Nero D’avola – precisa Antonino Spezia, detto Nino –. L’enologo ha poi deciso di rendere il prodotto più brioso rendendolo più gradevole al palato dei giovani proponendo un vino leggermente mosso.
Portata in cantina all’interno di cassette in modo che non ci sia contatto con il mosto, l’uva integra è schiacciata delicatamente e attraverso l’utilizzo del primo pressato, di color bianco. Durante il processo di vinificazione la particolarità è quella di allontanare subito le bucce di nero d’Avola per non dare colore al vino. Il mosto ottenuto fermenta a temperatura bassa (15/16 gradi) – spiega Nino Spezia –. Nasce in questo modo il bianco di Nero d’Avola, un vino che attualmente si può definire elegante e di moda”.
Punta di diamante della cantina è il Grillo con uva tardiva, prodotto con frutti lasciati appassire in pianta e raccolti a mano a fine settembre e in certe annate anche a ottobre. “Quando giungono in cantina, le uve devono essere perfettamente integre, sane e non ammuffite per essere lavorate in pressa a bassa temperatura, ottenendo un mosto molto zuccherino che ci consente di ottenere un vino che ricorda molto i passiti, da abbinare con formaggi e prodotti tipici siciliani – precisa il Presidente della Cooperativa –. Il prodotto ottenuto dalla vendemmia tardiva grazie al colore, ai profumi e al gusto è molto apprezzato. In passato, era frequente creare vini con uve tardive, oggi molte cantine hanno abbandonato tale produzione per due motivi: la resa del vino è molto bassa, e non tutti gli anni si può vinificare, perché ci sono annate piovose e il frutto ammuffisce in pianta”.
Attualmente, Terre di Giafar produce, anche, due linee di vini in bottiglia: una linea élite che presenta un packaging ricercato e vini monovarietali quali Nero d’Avola, Syrah, Merlot, Grillo, Catarratto, e una linea presentata in una veste coloratissima con blend aromatici come Nero d’Avola/Merlot, Catarratto/Inzolia, Grillo/Zibibbo.
La scelta aziendale è di puntare per lo più sui vitigni storici tipici della Sicilia per valorizzare le produzioni regionali e tipiche dell’isola.
La Società Cooperativa Agricola “Terre di Giafar” nasce nel 2008 per volontà di 14 imprenditori trapanesi decisi a conferire la propria produzione secondo i crismi della mutualità sottraendosi così alla speculazione degli operatori privati del trapanese. Credendo negli stessi principi e con i medesimi obiettivi altri soci hanno successivamente aderito all’iniziativa cosicché la superficie totale coltivata a vigneto ammonta ad oggi a circa 200 Ha.
La Cooperativa prende in affitto dal Tribunale di Trapani la struttura confiscata alla mafia di una storica cantina sociale del comprensorio. Con il sostegno della magistratura è stato così possibile impedire che l’ennesima struttura confiscata andasse alla deriva preda del vandalismo e dell’incuria.
Nella logica imprenditoriale gli stessi fondatori si sono dati un ordinamento interno scegliendo tra i Soci fondatori tanto il proprio Presidente nella figura del Dott. Agr. Antonino Spezia che i Consiglieri del Consiglio di Amministrazione.
La mission è quella di “fondere” in un unico corpo e in un’unica anima tutte le singole aziende conferitrici abbattendo i costi di gestioni tipici delle piccole imprese realizzando un reddito pro capite competitivo con gli operatori privati del settore.
La struttura, sorta nel 1967 è oggi totalmente ristrutturata e arricchita delle più moderne e tecnologicamente avanzate attrezzature per la lavorazione delle uve ha una capacità di stoccaggio pari a 60 mila quintali di uva. Il conferimento totale degli attuali soci della Cooperativa, però ammonta a circa 10 mila quintali di uva altamente selezionata e che permette la produzione di vini di alto pregio.
La cantina è dotata anche di una linea di imbottigliamento quasi interamente meccanizzata che permette di produrre 2.500 bottiglie all’ora. La Cooperativa, oltre a imbottigliare i propri vini, offre il servizio di imbottigliamento per aziende terze differenziando così l’attività e aumentando gli introiti che vengono poi ripartiti tra i soci.
La leucemia linfoblastica acuta (LLA) è una malattia oncoematologica che coinvolge il sangue e il midollo osseo, il tessuto che si trova all’interno delle ossa, da cui hanno origine le cellule del sangue periferico.
È una patologia rara, a rapida progressione. La malattia coinvolge le cellule ematologiche immature bloccandone la differenziazione.
Si verifica quando all’interno di una cellula del midollo osseo avviene una mutazione o un errore nella duplicazione del DNA che ne altera i normali processi di proliferazione e differenziazione. Nei pazienti con LLA, avviene un accumulo incontrollato di globuli bianchi immaturi e maligni (detti blasti) che toglie spazio alle cellule sane del midollo osseo, 2 compromettendo le normali funzioni ematopoietiche.
Incidenza
In Europa, vengono diagnosticati complessivamente ogni anno 7 mila casi di LLA. Esistono vari sottotipi di LLA, con un’incidenza specifica molto bassa. Per esempio, si stima che in Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito siano circa 600 gli adulti con LLA da precursori delle cellule B recidivante o refrattaria negativa per il cromosoma Philadelphia. I pazienti adulti con diagnosi di LLA sono spesso giovani adulti, con un’età media alla diagnosi di 44-55 anni.
Sintomi
In generale, la LLA si manifesta clinicamente con:
Sanguinamento delle gengive
Febbre
Infezioni frequenti
Sanguinamento dal naso, abbondante e frequente
Riscontro di linfonodi ingrossati, sul collo, sotto le ascelle, a livello addominale o all’inguine
Pallore
Respiro corto
Debolezza, affaticamento.
Fattori di rischio
Non si conoscono con certezza le cause che provocano le mutazioni del DNA responsabili della produzione di cellule linfoidi anomale e quindi della LLA, ma si sa che la malattia non è ereditaria.
I fattori che possono aumentare il rischio di LLA sono:
Precedenti terapie contro il cancro
Esposizione a radiazioni
Sindromi genetiche
Familiarità per LLA.
DIAGNOSI
I test e le procedure effettuabili per la diagnosi della LLA includono:
Analisi del sangue: le analisi del sangue potrebbero rivelare anomalie nell’emocromo come, ad esempio, un elevato numero di globuli bianchi, bassi livelli di globuli rossi e di piastrine. Le analisi del sangue mostrano anche la presenza di blasti (cellule immature) che si trovano solitamente nel midollo osseo, ma che non circolano nel sangue.
Analisi del midollo osseo: attraverso l’utilizzo di un ago, viene prelevato un campione del midollo osseo dall’osso del bacino, per ricercare le cellule leucemiche. I medici, in laboratorio, classificano le cellule ematopoietiche in base alla loro dimensione, alla forma e altre caratteristiche. Cercano anche di individuare alcuni cambiamenti tipici delle cellule patologiche e di determinare se le cellule leucemiche derivano da linfociti B o linfociti T.
Test di imaging: i test di imaging, come le radiografie del torace, la tomografia computerizzata (TC) o l’ecografia possono aiutare a stabilire se la malattia coinvolge il cervello, le ossa, i linfonodi o altre parti del corpo.
Analisi del liquido cefalorachidiano (liquor): attraverso una puntura lombare, si raccoglie un campione di liquor. Il campione viene analizzato alla ricerca dell’eventuale presenza di cellule leucemiche.
Ci sono vari sottotipi di LLA, la cui corretta identificazione è importante per una corretta diagnosi e fondamentale per la successiva scelta terapeutica.
Attraverso l’analisi dell’immunofenotipo delle cellule leucemiche è possibile distinguere i due gruppi principali di LLA: la LLA di origine B (la più comune) e la LLA di origine T.
È possibile inoltre classificare la LLA in base allo stadio maturativo a cui sono assimilabili i blasti leucemici e alla presenza o meno del cromosoma Philadelphia.
TRATTAMENTI
Solitamente, il trattamento della LLA si compone di più fasi di chemioterapia:
Fase d’induzione: lo scopo di questa prima fase della cura è quello di eliminare la maggior parte delle cellule leucemiche nel sangue e nel midollo osseo, e favorire il ripristino di cellule normali.
Fase di consolidamento: la fase di consolidamento è nota anche come “terapia post-remissione”. Questa fase del trattamento mira a distruggere le cellule leucemiche residue e non individuabili.
Fase di mantenimento: ha lo scopo di prevenire la ricomparsa di nuove cellule leucemiche e quindi la recidiva di malattia. Le dosi di chemioterapia somministrate in questa fase sono, solitamente, minori.
Profilassi del Sistema Nervoso Centrale: i pazienti con LLA vengono sottoposti a trattamenti in grado di eliminare l’eventuale presenza di cellule leucemiche nel sistema nervoso centrale, durante tutte le fasi della terapia. Per questo tipo di trattamento, vengono iniettati farmaci chemioterapici direttamente nel canale spinale con lo scopo di uccidere le cellule leucemiche che non vengono raggiunte in questa sede dai normali farmaci chemioterapici assunti per via orale, iniettati sottopelle (per via sottocutanea) o via endovenosa.
Circa l’11% dei pazienti non risponde alla cura, e soffre della cosiddetta leucemia refrattaria. Circa il 60% dei pazienti affetti da LLA va incontro invece a ricaduta dopo aver inizialmente risposto al trattamento. Per i pazienti adulti con LLA, la probabilità di sopravvivenza a cinque anni, dopo la prima ricaduta, è del 7%. La mortalità è quindi altissima.
In relazione alla severità del quadro clinico e all’eventuale progressione della malattia, le cure della LLA possono durare due o tre anni, e prevedono:
Chemioterapia: ovvero farmaci che uccidono le cellule leucemiche e, solitamente, ciò avviene durante la fase di induzione sia nei bambini che negli adulti; può essere anche utilizzata durante la fase di consolidamento e mantenimento.
Terapiamirata: farmaci che colpiscono specificamente alcune anomalie delle cellule leucemiche, che sono alla base della loro sopravvivenza e proliferazione illimitata.
Radioterapia: utilizzo di radiazioni, che uccidono le cellule tumorali.
Trapianto di cellule staminali: può essere utilizzato durante la terapia di consolidamento nei pazienti a rischio di ricaduta per ristabilire la presenza di cellule staminali sane, che sostituiscano quelle tumorali presenti nel midollo osseo e instaurare una risposta immunologica contro la leucemia.
Sperimentazioni cliniche: testano l’efficacia delle nuove cure per la leucemia o quella delle terapie esistenti. Le sperimentazioni cliniche danno una possibilità ai pazienti di essere trattati con farmaci innovativi, per i quali sono ancora in corso di valutazione i rischi e i benefici. I pazienti discutono i potenziali rischi e benefici con il loro medico, prima di firmare un consenso informato per essere inseriti all’interno della sperimentazione clinica.
Lo scopo della cura è la remissione completa (RC). La remissione avviene quando non ci sono più evidenze di LLA e sia l’emocromo che le cellule del midollo osseo del paziente ritornano nella norma. Nella LLA, la remissione è spesso definita da un numero di blasti leucemici nel midollo osseo inferiore al 5%.
Test MRD
Con il raggiungimento della RC, potrebbe essere presente, nell’organismo, un piccolo numero di cellule leucemiche non visibili. Si definisce residuo minimo di malattia (MRD): uno stato in cui la leucemia non è visibile al microscopio, ma solo attraverso tecniche più sensibili in grado di individuare le cellule maligne residue.
Il test MRD può essere utilizzato per valutare la prognosi dei pazienti con LLA e per guidare le decisioni sull’iter di trattamento. La valutazione della MRD ha acquisito un valore importante nei protocolli di cura europei per i pazienti con LLA, sulla base del suo alto valore prognostico.
“Lo strumento terapeutico di riferimento rimane la chemioterapia, che si basa su farmaci che sono stati sviluppati a partire dagli anni ’60 – precisa Alessandro Rambaldi, Direttore Unità Strutturale Complessa di Ematologia, Azienda ASST Papa Giovanni XXIII Bergamo –. Nel corso degli anni abbiamo imparato ad usare sempre meglio questi farmaci definendo le combinazioni tra i chemioterapici, la loro sequenza, e soprattutto la dose di utilizzo e questo ha portato già grandi risultati: i bambini trattati negli anni ’70 con gli stessi farmaci che utilizziamo oggi guarivano nel 20% dei casi, oggi nel 90% dei casi. Nel paziente adulto il progresso è stato meno significativo, ma comunque molto rilevante. Il secondo presidio terapeutico disponibile è il trapianto di midollo osseo allogenico che è una modalità estremamente efficace perché si basa sulla somministrazione di una dose massimale di chemioterapia eventualmente associata anche alla radioterapia. Questa combinazione da un lato è in grado di ottenere una significativa eradicazione della malattia, ma al tempo stesso provoca un danno irreversibile anche alle cellule sane che non sono più in grado di produrre sangue. Per tale ragione questa funzione viene assunta da cellule staminali emopoietiche sane ottenute da un donatore compatibile. Purtroppo, accanto all’effetto terapeutico del trapianto, il sistema immunitario del donatore può talvolta aggredire non soltanto le cellule leucemiche, ma anche quelle sane del paziente (quali quelle della pelle, dell’intestino, del fegato e determinare una malattia che si chiama ‘malattia del trapianto contro l’ospite’, Graft Versus Host Disease, GvHD). Questa complicanza interessa circa il 25% dei pazienti e si presenta con delle manifestazioni acute o croniche che possono compromettere la qualità di vita del paziente e qualche volta la vita stessa. Per tutte queste ragioni, il trapianto di midollo osseo allogenico viene offerto solo ai pazienti per i quali si ha la certezza o almeno un’alta probabilità che la chemioterapia da sola non possa portare a guarigione.
Grazie al trapianto e a tanta ricerca di laboratorio, nel corso degli ultimi 35 anni abbiamo capito che una terapia immunologica contro la leucemia era possibile ed estremamente efficace. Dobbiamo sfruttare il sistema immunitario per curare in modo definitivo questa malattia senza però causare molte delle tossicità prima descritte. Tra questi nuovi trattamenti va ricordato lo sviluppo di tecniche di terapia genica, grazie alle quali i linfociti T vengono geneticamente modificati per riconoscere bersagli espressi sulla superficie delle cellule leucemiche o lo sviluppo di nuovi anticorpi, che ottengono lo stesso risultato attivando i linfociti stessi del paziente.
Da questi nuovi trattamenti innovativi più efficaci e meno tossici rispetto alla chemioterapia e al trapianto di midollo osseo ci aspettiamo nuovi decisivi progressi nella terapia di questa malattia”.
Sulle cure innovative risponde Robin Foà Direttore Ematologia, Policlinico Umberto I, Sapienza Università di Roma
Cosa sono gli anticorpi bispecifici? È ora disponibile anche in Italia blinatumomab, primo anticorpo bispecifico per il trattamento della leucemia acuta linfoblastica. Ci può spiegare in cosa consiste il suo innovativo meccanismo d’azione?
Il blinatumomab è un anticorpo monoclonale definito bispecifico perché il bersaglio è rappresentato da due antigeni espressi sulla superficie delle cellule, non uno come di solito avviene per gli anticorpi monoclonali. Uno è un antigene chiamato CD19 che è presente sulla superficie delle cellule di tutte le leucemie acute linfoblastiche della serie B, ma il meccanismo d’azione è mediato invece dall’altro antigene, il CD3, che è presente sulla superficie dei linfociti T del paziente. È una forma di immunoterapia perché di fatto vengono attivati/armati i linfociti T del paziente a riconoscere le cellule leucemiche CD19+. L’innovazione sta nel modello di azione; il blinatumomab è il primo anticorpo monoclonale bispecifico che è arrivato nella clinica ed è stato recentemente approvato prima da FDA e poi da EMA, e ora anche da AIFA.
La terapia con blinatumomab è quindi una forma di immunoterapia: viene attivato il sistema immunitario del paziente a riconoscere le cellule malate e quindi a cercare di eliminarle. È il primo anticorpo bispecifico approvato in oncologia e rappresenta una strategia terapeutica rivoluzionaria per una patologia molto grave. L’approvazione è per pazienti adulti che abbiano una leucemia acuta linfoblastica di tipo B, che sia Philadelphia (cioè che non porti questa alterazione citogenetica), e che siano recidivati o resistenti ad una o più linee di terapia. Quindi non si usa in prima linea ma nelle recidive di malattia.
Quali sono le evidenze scientifiche di efficacia di blinatumomab nel trattamento della leucemia linfoblastica acuta, in particolare rispetto alla chemioterapia, considerata finora il trattamento standard per questa patologia?
Sono stati condotti negli anni molti studi prima di arrivare allo studio TOWER randomizzato, che rappresenta l’ultimo anello di una lunga catena di studi clinici di fase I e II che sono stati completati in precedenza e che hanno dimostrato l’efficacia di questo anticorpo bispecifico in pazienti con leucemia linfoblastica acuta in recidiva o resistente alla terapia standard. I risultati incoraggianti hanno portato al disegno dello studio randomizzato per pazienti che hanno questo tipo di malattia, negativi per il cromosoma Philadelphia. I pazienti sono stati randomizzati alla cieca a ricevere lo standard of care, che è sempre una combinazione chemioterapica, oppure questo anticorpo monoclonale usato da solo. I risultati dello studio sono stati rilevanti perché hanno dimostrato che, rispetto alla terapia convenzionale, il blinatumomab ha permesso di ottenere percentuali di remissione completa di malattia significativamente più elevate e ha praticamente raddoppiato la sopravvivenza rispetto alla chemioterapia standard. Risultati quindi molto importanti, che non si erano mai osservati con un singolo farmaco. Questi risultati sono stati recentemente pubblicati sulla più prestigiosa rivista di medicina, il New England Journal of Medicine.
Per quanto tempo e con quali modalità viene somministrato blinatumomab ai pazienti?
Di solito si somministrano due cicli ma si può arrivare anche a cinque cicli. Le risposte maggiori si hanno dopo il primo e il secondo ciclo. Il trattamento consiste in una terapia infusionale continua, per 28 giorni, seguita da un periodo di intervallo di due settimane. Il paziente viene ricoverato all’inizio della terapia e successivamente la somministrazione del farmaco può proseguire a domicilio utilizzando una pompa da infusione.
“La fotografia è un arte; anzi è più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole”, afferma Alphonse de Lamartine. Arte e fotografia, infatti, hanno da sempre camminato l’una al fianco dell’altra influenzandosi a vicenda. Tale equazione si riscontra, anche, al Festival Internazionale dedicato alla Fotografia d’Autore, manifestazione inaugurata presso la sala convegni del Complesso Culturale “Le Ciminiere” di Catania, con la tradizionale consegna del riconoscimento alla carriera (Premio Mediterraneum per la Fotografia d’Autore) al fotografo Francesco Cito.
Gli scatti in mostra invitano a riflettere sulle nostre origini e su tutto ciò che è nato lungo le sponde del Mediterraneo. “Siamo figli della Magna Grecia, di quella civiltà che parlava tanti dialetti e che, in un preciso momento, seppero fondersi e stringersi nella Koinè, ovvero nell’onesta comunicazione affidata a: suoni, immagini e parole condivise con la speranza in un miglior rapporto relazionale. Siamo alla ricerca di una nuova koinè, e riteniamo che la fotografia possa farsi carico di quest’aspettativa”, riferisce Pippo Pappalardo, storico e critico della fotografia.
Mediterraneo κοινὴ (Mediterraneo unito) è, infatti, il tema delle 250 istantanee che compongono le 16 mostre personali di altrettanti fotografi italiani e stranieri. Francesco Cito, Graziano Perotti, Ilaria Abbiento, Roberta Baldaro, Emanuela Minaldi, Salvo Alibrio e Ferdinando Scianna sono gli autori italiani presenti alla mostra.
Quest’ultimo è un professionista molto legato alla sua Sicilia, che ha rappresentato spesso attraverso immagini realistiche. Foto scattate a margine di reportage dagli anni ’60 al 2000. “Non li ho chiamati paesaggi. Solo luoghi che ho incontrato vivendo, lavorando e che hanno richiamato la mia attenzione”, afferma Ferdinando Scianna. Istantanee con uno stile sempre abbastanza lontano per non farsi coinvolgere, sempre abbastanza vicino per sentire le forze emotive, che lo stesso fotografo sintetizza come “le giuste distanze”.
Una giuria ha scelto poi 30 foto tra migliaia di scatti di altri fotografi. Quelli selezionati sono stati pubblicati su Instagram. Primo, secondo e terzo premio sono stati affidati al maggior numero di “like”. Tra questi I fuochi d’artificio della bella fotografa catanese Irene la China. “Un giorno leggendo del contest di Med Photo Fest mi sono sfidata – racconta Irene –. Ho mandato un mio scatto della notte del 3 febbraio durante la festa di S. Agata. È stata un’emozione grande sapere che il mio scatto è stato selezionato da una vera giuria e che è stato esposto in un’importante galleria della Sicilia, insieme a grandi fotografi come Scianna”. Nella stessa galleria, infatti, a fianco dei grandi fotografi questi scatti.
La manifestazione, inoltre, è arricchita con una serie di incontri dedicati all’editoria con le presentazioni di volumi fotografici tra cui “Istanti di luoghi” di Ferdinando Scianna, “Ultima Sicilia” di Giovanni Chiaramonte, “Il Fotografo e lo sciamano” di Dario Coletti, e interessanti workshop, seminari culturali e tecnici, con la partecipazione di Francesco Cito e Tony Gentile, esponenti della comunicazione visiva.
Simone Lucci
Fotografi:
Francesco Cito; Ferdinando Scianna; Graziano Perotti; Ilaria Abbiento; Roberta Baldaro; Emanuela Minaldi; Salvo Alibrio; Sinawi Zen Medine (Francia); Isabelle Serro (Francia); Patrick Bar (Francia); Matic Zorman (Slovenia); Antigone Kourakou (Grecia); Clara Abi Nader (Libano); Gabi Ben Avraham (Israele); Marta Altares Moro (Spagna); Samet Ergün (Turchia).
Alimenti “amici” e combinazioni intelligenti, per piatti gustosi e benefici per il cuore.
Alleggerire i condimenti con cotture semplici e rivoluzionarie, che riducano anche i tempi di preparazione.
Attività fisica costante e in misura personalizzata.
Associare un integratore alimentare per l’apporto quotidiano dei nutrienti che aiutano il cuore, favorendo il controllo del colesterolo e del metabolismo glucidico.
Sono le 5 “A” della prevenzione sostenibile, un approccio innovativo attraverso piccoli cambiamenti nello stile di vita, di cui sono parte integrante un’alimentazione equilibrata e l’uso appropriato degli integratori alimentari: a promuoverlo è “LopiLife, nutriamo la salute del cuore”.
La campagna si basa sulle nuove Linee Guida della Società Europea dell’Aterosclerosi e della Società Europea di Cardiologia che, nei soggetti con livelli di colesterolo borderline e che non necessitano di trattamento farmacologico, oltre a raccomandare modifiche nello stile di vita e nell’alimentazione, suggeriscono di “nutrire” la salute del cuore con integratori alimentari in grado di agire favorevolmente su alcuni fattori di rischio cardiovascolare, grazie a principi attivi naturali.
A queste caratteristiche risponde il nuovo integratore alimentare LopiGLIK, che riunisce in un’unica formulazione tre principi attivi naturali con efficacia scientificamente provata
Ogni compressa di LopiGLIK contiene:
Berberis Aristata: contribuisce alla regolare funzionalità dell’apparato cardiovascolare. La berberina è una sostanza naturale, estratta dalla corteccia di Berberis aristata, arbusto spinoso originario dell’Himalaya e del Nepal appartenente alla famiglia delle Berberidaceae.
La berberina svolge diverse attività farmacologiche e contribuisce alla normale regolarità cardiovascolare.
Riso rosso fermentato: favorisce il controllo del colesterolo nel sangue ad integrazione di una dieta adeguata
Il riso rosso fermentato è un antico componente dietetico cinese. È prodotto dalla fermentazione del riso per opera del Monascus purpureus, micete che produce diverse sostanze tra cui un pigmento rosso (da cui il nome di “lievito rosso”), e sostanze che modificano i grassi presenti nel sangue. Queste ultime sono state identificate chimicamente come “monacoline”, tra cui la monacolina K, che hanno un ruolo nella gestione dei livelli di colesterolo (Yang 2012, Shamim 2013).
Morus alba: favorisce il metabolismo degli zuccheri. Il gelso bianco o moro bianco o Morus alba, è un albero deciduo che appartiene alla famiglia delle Moraceae, originario della Cina settentrionale e della Corea.
L’efficacia di LopiGLIK è stata valutata in uno studio scientifico (Trimarco V. et al. 2015). Rispetto al prodotto nutraceutico per il controllo del colesterolo leader di mercato si è osservato nei 23 soggetti trattati una superiore riduzione del colesterolo totale e LDL (target LDL raggiunto nel 56,5% dei pazienti contro il 21,7%) e presenta un’efficacia sovrapponibile per i trigliceridi e aumento del colesterolo buono HDL.
Ma insieme all’uso quotidiano di un integratore quali altre regole promuove LopiLife?
Una regola sostenibile è l’introduzione nella dieta di alimenti amici che consentano di mantenere stabili gli ormoni, principalmente l’insulina prodotta dal pancreas; inoltre, è importante l’attenzione alle combinazioni intelligenti e funzionali tra gli alimenti, valutando il loro effetto sui diversi organi.
“Per stare bene e guadagnare salute più a lungo possibile affrontando una sana longevità, dobbiamo imparare a riprogrammare i nostri ormoni a tavola: il primo passo è ridurre l’insulino-resistenza, il secondo passo è saper combinare gli alimenti in modo funzionale. È sbagliato sia mangiare troppi zuccheri, sia troppe proteine – afferma Sara Farnetti, Specialista in Medicina Interna e malattie del metabolismo -. La cosa giusta da fare è mantenere bassa l’insulina a ogni pasto, assumendo alimenti amici, come il cioccolato, le mandorle, e sostanze estratte dalle piante, come il cardo e il gelso bianco. Gli integratori danno maggiore efficacia benefica all’azione funzionale dei cibi che assumiamo”.
Cottura a vapore, pentola a pressione, cottura a basse temperature: il segreto dell’innovazione amica del cuore in cucina sono anche le tecniche di cottura semplici e rivoluzionarie, che possono limitare a 15-20 minuti i tempi di preparazione, e che nella campagna si esprimeranno attraverso le ricette d’autore dello chef stellato Luciano Monosilio.
“La cucina stellata è frutto di una grande ricerca di ingredienti, di alchimie che legano i cibi e di cotture che rispettano le materie prime. Lavorando su tutti questi fronti, si possono creare dei piatti che soddisfino il palato e, allo stesso tempo, che siano amici del cuore – afferma Luciano Monosilio -. Il segreto è utilizzare ingredienti freschi e di qualità, e cucinarli con tecniche e strumenti che non ne distruggano il valore nutritivo e diminuendo l’utilizzo di grassi animali e oli vegetali saturi in favore di erbe e spezie. Da questo punto di vista, un aiuto a una sana alimentazione può venire anche dai metodi di cottura semplici e rivoluzionari, come la cottura a bassa temperatura, quella a vapore o la pentola a pressione, che permettono di mantenere inalterate le proprietà organolettiche e nutritive degli alimenti, limitando l’uso di condimento e di grassi”.
Cos’è il colesterolo Il colesterolo è un grasso prodotto dal fegato ed è presente in tutte le cellule dell’organismo. Serve per la sintesi di alcuni ormoni, gioca un ruolo fondamentale nella produzione della vitamina D, è un costituente delle membrane cellulari e di vari tessuti.
La maggior parte del colesterolo circolante viene sintetizzato all’interno del nostro organismo, e solo una piccola quota è introdotta attraverso l’alimentazione. Una persona adulta sintetizza circa 600-1000 mg di colesterolo al giorno. Alla quota di colesterolo endogeno, prodotto cioè dall’organismo, che equivale a circa il 70-80% di tutto il colesterolo, si affianca quella assunta dall’esterno (colesterolo esogeno).
Una dieta equilibrata apporta, in genere, da 200 a 300 mg di colesterolo al giorno. Il colesterolo può essere introdotto dall’esterno con alimenti quali i cibi ricchi di grassi animali, come carne, burro, salumi, formaggi, tuorlo dell’uovo. Il colesterolo viene introdotto anche attraverso i grassi insaturi che si ottengono aggiungendo idrogeno agli oli vegetali, tipici di molte fritture e anche delle margarine vegetali e dei grassi usati in pasticceria. I cibi di origine vegetale (frutta, verdura, cereali) non contengono colesterolo.
Perché è pericoloso In quantità eccessive, il colesterolo diventa un formidabile nemico per l’intero apparato cardiovascolare. Infatti, il colesterolo in eccesso tende ad accumularsi sulle pareti delle arterie e nel tempo può formare una placca che restringe l’arteria e riduce il flusso di sangue. O, addirittura, quando arriva a ostruire totalmente l’arteria interessata, interrompere irreversibilmente il flusso sanguigno. Quando questo fenomeno interessa le coronarie, che portano il sangue al cuore, aumenta il pericolo di infarto, soprattutto se sono presenti altri fattori di rischio. Tale processo può, comunque, colpire qualsiasi distretto corporeo, con danni correlati all’organo interessato, frequentemente cervello (ictus) e reni, con perdita della funzionalità.
Colesterolo buono e cattivo Il colesterolo, in quanto tale, non potrebbe circolare liberamente nel sangue. Si lega, quindi, a speciali “trasportatori”, le lipoproteine. Queste non sono tutte uguali, ma sono più o meno dense e, proprio in base alla loro densità, tendono ad uscire dai vasi o a rimanere al loro interno facilitando la formazione delle placche e, quindi, delle lesioni. Da qui la definizione di colesterolo “buono” e “cattivo”.
HDL – Il colesterolo buono È definito così perché si lega alle HDL (High Density Lipoprotein, o lipoproteine ad alta densità), che hanno il compito di trasportarlo fuori dai vasi sanguigni verso il fegato, dove viene eliminato. Le HDL sono quindi una sorta di “spazzino” dei vasi sanguigni ed hanno azione protettiva per le arterie.
LDL – Il colesterolo cattivo Viaggia con le LDL (Low Density Lipoprotein, o lipoproteine a bassa densità) che lo trasportano ai vari tessuti lasciando che si accumuli nei vasi sanguigni dove ci sono lesioni. Si forma così la placca dell’aterosclerosi. Elevati valori di trigliceridi nel sangue possono favorirne la sintesi e quindi vanno anch’essi tenuti sotto controllo.
Il valore del colesterolo totale è “desiderabile” quando non supera i 200 mg/dL.
Il colesterolo LDL o cattivo non dovrebbe superare i 135 mg/dL nella persona sana ma nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolari (ipertensione, diabete, obesità, fumo) dovrebbero essere inferiori a 100 mg/dL e inferiori a 70 mg/dL nei soggetti che hanno già avuto eventi cardiovascolari.
Il colesterolo HDL o buono non deve mai scendere sotto i 30-40 mg/dL.
La glicemia La glicemia è la concentrazione di glucosio (zucchero) nel sangue. Il glucosio è la forma in cui devono essere trasformati gli altri zuccheri per poter essere utilizzati dal nostro organismo ed è quindi l’unico zucchero presente nel nostro sangue. L’assorbimento del glucosio è favorito dall’insulina, un ormone rilasciato dal pancreas. Una quantità eccessiva di zucchero causa un superlavoro per il pancreas per produrre l’insulina necessaria a normalizzare la concentrazione ematica di glucosio, ponendo l’organismo in una situazione di squilibrio e quindi di sofferenza. Nel tempo il pancreas si “affatica” e le cellule diventano meno sensibili all’insulina, per cui ne occorrono quantitativi maggiori per assicurare una normale concentrazione di glucosio nel sangue, compresa tra i 65-110 mg/dL. Un valore compreso tra i 110-125 mg/dL suggerisce il sospetto di alterata glicemia a digiuno (IFG). Mentre valori superiori a 125 mg/dL permettono di fare diagnosi di diabete qualora tale condizione si verificasse nuovamente ad una seconda misurazione.
“Dopo i 40 anni è importante tenere sotto controllo il colesterolo perché è uno dei segni della sindrome metabolica, una condizione clinica nella quale interventi diagnostici e terapeutici, nutrizionali e nutraceutici tempestivi influenzano positivamente l’aspettativa di vita e riducono notevolmente la spesa sanitaria – precisa Sara Farnetti –. La sindrome metabolica aumenta l’incidenza di cancro, diabete, malattie cardiovascolari, malattie del sistema nervoso centrale, osteoporosi. Questa sindrome è “silenziosa”, il paziente spesso non avverte disturbi particolari, e spesso la scopre per puro caso effettuando alcuni esami del sangue. In realtà, la sindrome metabolica è ben evidente perché è sempre presente: l’aumento della circonferenza della vita che documenta una obesità localizzata nella zona addominale. Nello specifico, le misure considerate a rischio sono superiori ai 94 centimetri per gli uomini e 80 per le donne. Per la diagnosi di sindrome metabolica devono essere anche presenti due dei seguenti criteri:
aumento dei trigliceridi nel sangue (oltre 150 mg/dl);
riduzione del colesterolo HDL “buono” al di sotto dei 40 mg/dl nelle donne e dei 50 mg/dl negli uomini;
pressione alta (valori superiori agli 85 mmHg di minima e ai 130 mmHg di massima);
glicemia elevata a digiuno (valori superiori ai 100 mg/dl) o diagnosi di diabete.
Da tutto questo è facile intuire che non è importante il colesterolo di per sé come malattia ma in quanto considerato e inquadrato all’interno della sindrome metabolica”.
Il binomio uomo e abbronzatura è stato per molto secoli contrastante. Fino all’Ottocento, le nobili donne passeggiavano con l’ombrellino per mantenere la pelle chiara che era sinonimo di aristocrazia. Ma “l’impero” del candore diafano della cute era destinato a cadere. Agli inizi del Novecento, infatti, l’abbronzatura è diventata di moda, e a sdoganarla è stata la stilista parigina Coco Chanel, notata da tutti per la sua carnagione dorata dopo un soggiorno a Juan-les-Pins, in Costa Azzurra.
Ma come togliere il grigio invernale dalla pelle e lasciar spazio a una cute dorata in modo sicuro? Proteggere e idratare ogni tipo di pelle, anche le più sensibili, con solari che garantiscono un approccio corretto e medicale all’abbronzatura è fondamentale.
Lo studio degli effetti del sole sulle differenti tipologie di epidermide ha molto influenzato Angstrom, che basa i suoi prodotti sulle condizioni ambientali e sul fototipo, ossia l’insieme di categorie che divide la popolazione in base a tipo di pelle (colore), capelli, occhi e reazioni al sole.
I cosmetici Angstrom Protect, infatti, sono formulati con filtri solari ad ampio spettro di assorbimento (UV-A e UV-B), una speciale formula a tripla azione, e il TTS (Total Tanning System). Il TTS comprende un pool di principi funzionali (Tirosina, Inositolo ed Heliostatine) che agisce in modo selettivo a seconda dell’attitudine all’abbronzatura dei diversi tipi di epidermide, dalla più chiara alla più scura, aiutando a stimolare, velocizzare e prolungare la soggettiva capacità di produrre melanina con una migliore performance abbronzante. Un fenomeno che avviene in modo sinergico e nel rispetto del naturale processo di pigmentazione della cute.
L’idratazione prolungata, inoltre, previene gli eritemi, le bruciature e il fotoinvecchiamento dell’epidermide. I solari, infatti, sono stati creati con tre ingredienti (propandiolo, diglycerin e glicerina) che sono in grado di idratare intensamente e rapidamente la pelle.
L’originale latte aerosol spray trasparente si assorbe rapidamente senza lasciare residui visibili, e con le creme solari viso effetto matt e non, la lozione autoabbronzante, il latte solare corpo, il latte doposole, la crema gel doposole e lo stick solare idratante e nutriente, che protegge le zone più delicate con protezione avanzata e fotostabile UVA/UVB spf50, si completa linea Angstrom dalla texture ricca, delicata, estremamente idratante e resistenti all’acqua.
Una corretta protezione e idratazione consentono di ottenere un colorito sano e una perfetta abbronzatura dorata, uniforme, duratura, evitando scottature. E come affermava Coco Chanel “Una donna deve abbronzarsi. L’abbronzatura è chic”.
Simone Lucci
Angstrom nasce nel 1980 e unisce scienza, tecnologia, ricerca dermocosmetica ed esperienza al servizio di un “suncare” sicuro e senza rischi.
La sua affidabilità parte dal nome, ispirato ad A.J. Angstrom, scienziato che nel diciannovesimo secolo studiò la lunghezza d’onda della luce (la spettroscopia) e le radiazioni ultraviolette (i raggi UV).
Grazie anche a questi studi oggi si conoscono gli effetti dannosi del sole sulla pelle come fotoinvecchiamento, disidratazione, radicali liberi, alterazioni del DNA; conoscenze scientifiche che sono da sempre la base sulla quale nascono i solari Angstrom.
Fin dalle origini infatti, la filosofia di Angstrom si fonda sul garantire un approccio corretto e scientifico all’abbronzatura, proteggendo e preparando all’esposizione anche la pelle più delicata e sensibile come quella del bambino, in modo che il sole sia sempre e solo un piacere per tutti.
Da uno studio epidemiologico condotto su oltre 12 mila alunni delle scuole elementari emerge che il 25,5% dei bambini italiani ha riportato almeno una scottatura solare nel corso della vita, con una maggiore incidenza tra gli alunni del Sud e le isole (28,2%) e il 9,4% dei bambini almeno una scottatura nei dodici mesi prima della rilevazione. Circa l’85% del campione utilizza qualche volta o sempre creme solari, il 73,5% il cappellino, il 73,6% la maglietta, il 54,2% gli occhiali da sole.
“Il Sole per amico” è la più grande campagna di prevenzione primaria sul melanoma mai realizzata in Italia. E sono i bambini i destinatari principali dell’iniziativa di sensibilizzazione promossa da IMI in quanto fascia di popolazione più a rischio per il melanoma: le scottature prese nell’infanzia sono un fattore di rischio perché la pelle “memorizza” il danno ricevuto e può innescare il processo patologico anche a diversi anni di distanza.
La campagna è stata promossa a partire dal 2015 da IMI – Intergruppo Melanoma Italiano, con la collaborazione del Ministero dell’Istruzione, il patrocinio del Ministero della Salute e dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM).
“Il Sole per amico” ha raggiunto i cittadini attraverso il web, nelle stazioni ferroviarie, sulle spiagge, è stato un progetto educazionale sulla corretta esposizione al sole per gli alunni delle scuole primarie e le loro famiglie, che nell’arco di due anni scolastici ha coinvolto 300 scuole di 11 Regioni, circa 50.000 alunni, oltre 4.000 docenti e ha coinvolto migliaia di bambini nella realizzazione di disegni, temi, recite ispirati ai contenuti della campagna.
Apprendere da piccoli le regole che servono a esporsi con giudizio al sole e a difendere la pelle, significa ridurre il rischio di tumori cutanei per tutta la vita. “Il concetto più importante trasmesso ai bambini delle scuole primarie riguarda l’importanza di seguire le regole della fotoprotezione, tra le quali le principali sono evitare le esposizioni eccessive e le conseguenti scottature soprattutto se si ha un fototipo 1 o 2, esporsi sempre gradualmente, evitare di farlo nelle ore centrali della giornata, utilizzare indumenti quali cappello con visiera, camicia o maglietta e occhiali da sole, usare creme solari adeguate al proprio fototipo”, commenta Ignazio Stanganelli, Referente per la Dermatologia di IMI e Presidente eletto IMI, Professore Associato all’Università degli Studi di Parma e Responsabile del Centro di Oncologia Dermatologica IRST Romagna.
“La campagna e il progetto educazionale ‘Il Sole per amico’ sono stati voluti da IMI per contrastare la diffusione del melanoma, che sta diventando sempre più frequente tra i giovani adulti di 20-30 anni di età, e ormai rappresenta il secondo tumore per incidenza nella popolazione maschile e il terzo in quella femminile al di sotto dei 50 anni – afferma Giuseppe Palmieri, Presidente IMI (Intergruppo Melanoma Italiano) e Responsabile Unità di Genetica dei Tumori, Istituto di Chimica Biomolecolare, ICB-CNR Sassari – insieme ad altre iniziative di sensibilizzazione, questa campagna potrà avere un impatto positivo a lungo termine nel ridurre l’incidenza del melanoma e, insieme al miglioramento della diagnosi precoce, contribuire alla diminuzione della mortalità”.
Ideatrice della campagna è Paola Queirolo Presidente Uscente IMI, UOC Oncologia Medica all’IRCCS-AOU San Martino-IST di Genova. L’iniziativa nasce dalla consapevolezza dell’importanza di far crescere l’attenzione dell’opinione pubblica sul melanoma e sui rischi legati a una non corretta esposizione, coinvolgendo in particolare i bambini delle scuole elementari e ha insegnato loro le regole fondamentali per l’esposizione al sole in modo da ridurre il rischio che sviluppino melanoma in età adulta”.
IL MELANOMA
Il melanoma è un tumore molto aggressivo che deriva dalla trasformazione maligna dei melanociti, le cellule che determinano il colore della pelle. Il melanoma può insorgere sulla pelle apparentemente sana o dalla modificazione di un neo preesistente.
La frequenza di questo tumore è in netto aumento in tutto il mondo: negli ultimi 15 anni il numero dei casi di melanoma è praticamente raddoppiato. Ogni anno nel mondo si registrano circa 100.000 nuovi casi. Quando il melanoma viene diagnosticato precocemente è generalmente una malattia curabile. Tuttavia, se non individuato in tempo e non trattato, il melanoma può diffondersi ad altre parti dell’organismo, come fegato, polmoni, ossa e cervello. Un melanoma che si è diffuso ad altri organi è chiamato melanoma metastatico: questo tipo di tumore della pelle ha una prognosi non favorevole. Sebbene il melanoma metastatico sia relativamente raro, può avere un effetto devastante sui pazienti e i familiari, specialmente perché le persone colpite sono spesso in giovane età. L’età media dei pazienti con diagnosi di melanoma è di soli 50 anni e il 20% dei casi viene riscontrato in pazienti di età compresa tra 15 e 39 anni.
Perché si presenta il melanoma?
Il melanoma insorge a causa della crescita e della proliferazione incontrollata dei “melanociti”, le cellule che producono la “melanina”, il pigmento che dà colore a pelle, occhi, capelli e protegge la cute dai raggi ultravioletti (UV) della luce solare. Un’esposizione eccessiva ai raggi UV può provocare mutazioni nei melanociti e rappresenta una delle cause principali di tumori cutanei come il melanoma.
Quali sono i soggetti a rischio di melanoma?
Le persone più a rischio sono quelle che hanno una o più delle seguenti caratteristiche:
modificazione evidente e progressiva di un neo;
comparsa di un nuovo neo in età adulta;
soggetti già trattati per melanoma;
familiarità per melanoma (altri casi di melanoma in famiglia);
uno o più nei di diametro superiore a 5mm e di forma irregolare;
presenza di uno o più nei congeniti grandi;
elevato numero di nei;
capelli biondo-rossi, occhi chiari, carnagione particolarmente bianca ed estremamente sensibile al sole;
presenza di lentiggini;
frequenti scottature durante l’infanzia e l’adolescenza;
frequente esposizione a radiazioni ultraviolette artificiali di lampade abbronzanti o lettini solari.
TIPI DI MELANOMA
Esistono quattro tipi principali di melanoma della pelle:
il melanoma piano o sottile rappresenta la forma più frequente (70%); tende a crescere verso l’esterno piuttosto che verso l’interno;
il melanoma cupoliforme o nodulare è una variante di melanoma a rapida evoluzione e con alto rischio di progressione che tende a comparire a un’età più avanzata. Rappresenta il 10-15% di tutti i melanomi. È la forma a più rapida crescita: se non trattata, comincia a svilupparsi verso l’interno e può penetrare nella cute e diffondersi ad altre aree dell’organismo;
la lentigo maligna (melanoma in situ) è una lesione a lenta evoluzione che si manifesta, generalmente nei soggetti anziani sulla pelle del viso, come una macchia piatta, non palpabile, marrone, molto liscia, con perdita del normale profilo cutaneo. Generalmente ha un ritmo di crescita lento (anni) e raramente si diffonde ad altre parti dell’organismo. Tuttavia, se si diffonde, assume le stesse caratteristiche del melanoma metastatico;
il melanoma acrale-lentigginoso compare invece nelle zone acrali (palmo della mano, pianta del piede) rappresenta il 5% di tutti i melanomi ed è l’unica forma che può insorgere in tutti i fototipi, anche nei soggetti di pelle scura.
TERAPIA
In caso di sospetto melanoma si procede alla biopsia escissionale, ovvero la completa asportazione della neoformazione, e all’esecuzione dell’esame istologico. Se il melanoma è in situ si esegue un ampliamento chirurgico a distanza di 0.5 cm, se ha uno spessore (detto di Breslow) inferiore a 2 mm si esegue un ampliamento chirurgico a distanza di 1 cm dal margine della cicatrice. Inoltre, se lo spessore è superiore a 0.75 mm, oltre all’ampliamento chirurgico, si esegue anche la metodica del linfonodo sentinella per identificare il linfonodo che per primo drena dalla sede del melanoma e valutare l’eventuale diffusione del tumore.
Nello stadio precoce, il melanoma può essere spesso curato chirurgicamente, mentre negli stadi più avanzati può essere più difficile da trattare.
Gli standard di trattamento includono:
Intervento chirurgico
Immunoterapia
Terapia mirata
Chemioterapia
Radioterapia
Per i melanomi ad alto rischio di progressione nuove speranze vengono dalle terapie a bersaglio molecolare (target therapy) che inibiscono specifiche mutazioni geniche del tumore come la mutazione BRAF che si trova nel 50% dei melanomi in stadio avanzato. Un’importante novità è rappresentata dagli anticorpi immunomodulanti che hanno dimostrato di prolungare la sopravvivenza a lungo termine in pazienti con malattia avanzata.
Sulle pendici del Monte Orfano sorge maestoso, il Castello Bonomi, un originale edificio in stile Liberty progettato alla fine dell’800 dall’architetto Antonio Tagliaferri, che dà il nome a una realtà aziendale dinamica: i vigneti di CastelloBonomi appartenenti alla famiglia Paladin.
I 24 ettari di vigneto, sviluppati a gradoni, recintati e circondati da un parco secolare, rappresentano l’eccellenza di questi luoghi densi di piccoli borghi e palazzi carichi di storia.
Siamo in Franciacorta dove, da anni, la famiglia Paladin è impegnata a ottenere un’alta qualità del vino, nel rispetto dell’ambiente, della salute dei consumatori e dell’etica sociale. “Nel 2000 con il supporto dell’azienda, con i consulenti agronomi dello studio Sata, con l’enologo Stefano Saderi che si occupa dei vigneti di Veneto e Toscana, tutti coordinati dal professore Leonardo Valenti dell’Università Statale di Milano, abbiamo iniziato un percorso a livello sperimentale legato alla sostenibilità della viticultura che coinvolge diversi aspetti produttivi e ambientali. Insieme vorremmo mettere a punto un nostro protocollo di sostenibilità e poi certificarlo”, racconta Luigi Bersini, Chef de Cave della Castello Bonomi.
Con il progetto Ita.Ca®, Castello Bonomi e altre 50 aziende in tutta Italia si impegnano a creare un calcolatore che valuta le emissioni carboniche e stima il saldo di anidride carbonica (CO2) dell’azienda.
“Produrre o sfruttare energia da fonti rinnovabili, utilizzare lampadine a basso consumo, diminuire il peso del vetro della bottiglia da 920g a 880g sono le strategie messe in atto per ridurre del 10/20% la produzione di CO2”, spiega lo Chef de Cave.
Un altro obiettivo è la conversione al biologico. “L’azienda Bononi svolge, infatti, una Viticoltura Ragionata. Il nostro Gruppo si propone di ridurre del 50% la quantità di anidride solforosa prevista dalla legge per tutti i nostri vini principali – precisa Bersini –. Noi poniamo una grande attenzione all’ambiente anche durante le fasi produttive. Le macchine effettuano una pressatura molto leggera che consente di estrarre meno del 60% di mosto previsto dal disciplinare”. Un altro aspetto della viticultura ragionata riguarda il consumo dell’acqua. “Secondo la nostra idea – spiega Bersini – la pianta si deve adattare all’ambiente in cui vive, e deve avere poca esigenza d’acqua. Nel 2000, 2001 e per diversi anni fino al 2007, insieme all’Università, abbiamo fatto alcune prove di irrigazione. È emerso che i vitigni hanno una forte adattabilità al cambiamento climatico e se li abituiamo al così detto “stress controllato”, cioè man mano che andiamo avanti irrighiamo sempre meno, arrivano a resistere, senza problemi, anche a un’annata caldissima come quella del 2015. Ovviamente, i vigneti vecchi hanno radici più profonde e riescono a estrarre più sostanze, più sali minerali. Se è necessario facciamo irrigazioni di soccorso solo sui vigneti giovani. Bisogna considerare, tra l’altro, che l’acqua non accresce la qualità”.
A Castello Bonomi c’è anche una “capannina metereologica” che registra temperature e millimetri di pioggia. “Così è possibile conoscere la temperatura, quanti millimetri di pioggia sono caduti, per quanto tempo la foglia è rimasta bagnata, se la bagnatura è stata notturna o diurna. È importante avere questi dati perché fino a un certo numero di ore non c’è pericolo di malattia e, qualora vi siano rischi, si può prevedere tempestivamente il tipo di patologia o fungo che potrebbe attaccare la pianta. Nel tempo siamo riusciti, così, a risparmiare 4/5 trattamenti all’anno”.
In cantina non sono utilizzati il caseinato di potassio e le proteine animali che provocano l’insorgere di allergie. “Possiamo consideraci, anche, vegani e facciamo solo chiarifiche e decantazione statica – afferma Bersini –. E poi utilizziamo lieviti non indigeni, ma selezionati. Quando termina la fermentazione, il lievito assorbe le tossine, per poi essere rimesso in sospensione ciclicamente, in base alle fasi, alla degustazione e all’esigenza. Quando lo si estrae, il lievito che in origine è di colore bianco/giallino risulta marrone perché ha assorbito molte delle sostanze che generalmente si eliminano con un caseinato o con l’albumina. I nostri vini, poi, si stabilizzano in bottiglia”.
Chardonnay, Pinot Nero e Pinot Bianco sono i vitigni della Franciacorta. “Le viti sono trattate con la quantità di rame annua prevista dal disciplinare e allevate senza consumo di acqua perché, come ho già detto, la pianta si deve adattare all’ambiente in cui vive – puntualizza Luigi Bersini –. Dal 2001 al 2007, abbiamo svolto delle prove di irrigazione, notando che i vigneti possiedono una forte adattabilità al cambiamento climatico e resistono senza acqua anche a temperature elevate. Inoltre, da 15 anni, siamo passati da una concimazione mista chimico/organica, a una concimazione totalmente organica senza nessun impoverimento del terreno”.
I vitigni sono anche monitorati da sensori presenti su trattori che forniscono le mappe di vigore. “Una zona vigorosa è ricca di piante con numerosi tralci e frutti ed è più soggetta ad attacchi di malattie funginee – spiega lo Chef de Cave –. L’obiettivo delle rilevazioni è, quindi, quello di ridurre il vigore in questi terreni e aumentarlo nelle zone meno produttive, in modo da uniformare la crescita delle uve”.
Tali interventi consentono la produzione di vini equilibrati, longevi, minerali, di carattere, con aromi complessi e una eccellente persistenza olfattiva e gustativa. Attualmente, l’azienda produce 150 mila bottiglie, quasi esclusivamente di Franciacorta, nelle varie tipologie.
“Abbiamo scelto di lavorare solo con Chardonnay e Pinot nero, e per alcuni Franciacorta arriviamo addirittura al Pinot nero 100%, con enormi soddisfazioni e riconoscimenti – riferisce Luigi Bersini –. Lucrezia Etichetta Nera 2004 ne è un esempio: un blanc de noir premiato come miglior vino spumante agli Oscar del vino 2014 di Bibenda (Fondazione Italiana Sommelier) e nello stesso anno i 5 grappoli della Guida Bibenda che riceve anche nel 2017 con il Lucrezia Etichetta Nera 2006”.
Niente è più sbagliato del famoso slogan “7 chili in 7 giorni”, e mai lasciarsi attirare, poi, da testimonianze entusiastiche di persone che hanno perso 20 Kg in due mesi! Dopo un anno probabilmente avranno recuperato tutto, addirittura con gli interessi.
Il meccanismo è il seguente: una dieta ipocalorica troppo stretta finisce per bruciare i muscoli, come in una sorta di autocannibalismo. Una persona con un’esigenza di 1800 kcal. al giorno che riduce le calorie a 800 ha un deficit calorico di circa 1000 calorie e, per colmare questo deficit, il suo organismo ricava almeno 400 calorie distruggendo tessuto muscolare. Considerando 4 calorie per grammo di proteine, significa perdere circa 100g di proteine muscolari al giorno, cioè circa ½ kg. di massa muscolare, (mediamente formata da un 20% di proteine, 2% di glicogeno e per il resto da acqua). Seguendo questo ritmo si perderanno 5Kg di muscoli in 10 giorni. Le altre 600 calorie, attaccando i grassi (1Kg di tessuto adiposo = 7500 calorie), causerebbero un calo di circa un altro chilo, così avremo il famoso calo di 6Kg in dieci giorni, dei quali meno di 1Kg è costituito da grasso, mentre gli altri 5 sono muscoli. Se si perdono muscoli, però il metabolismo si abbassa, perché i muscoli bruciano, come combustibile preferenziale, grassi e carboidrati. Quindi noi ingrasseremo di nuovo, e più facilmente.
Ma non è finita qui. Infatti quelle 600 calorie di deficit giornaliero a carico dei grassi causano una perdita di grasso (560g alla settimana) troppo veloce innescando dei meccanismi di difesa nell’organismo che cerca di conservare le sue preziose riserve energetiche. Viene aumentata così la produzione di un enzima, la lipoproteinlipasi, che convoglia e imprigiona i grassi, presenti nel torrente circolatorio, dentro le cellule adipose, impedendo al corpo di usarli per coprire il deficit energetico. Il nostro organismo, di conseguenza, finisce per bruciare sempre più tessuto muscolare, e questo lo affatica, lo ingolfa e rallenta ulteriormente il metabolismo. È il circolo vizioso della così detta sindrome yo-yo, il famoso calo e poi il recupero di peso con gli interessi: quando si riprende a mangiare un po’ di più, ci si ritrova con tanta di quella lipoproteinlipasi che in poco tempo si riacquista tutto il grasso perso faticosamente e qualcosa in più.
Per evitare l’insorgere di questo meccanismo non bisogna perdere più di 250g di grasso alla settimana, il che equivale a un deficit calorico di circa 250 calorie al giorno. Esiste, poi, un altro motivo per non perdere peso troppo in fretta. C’è un livello di grasso stabilito geneticamente: ognuno di noi ha un suo livello abituale, in relazione al proprio stile di vita. Se questo livello di grasso viene mantenuto per un anno o più, il corpo sviluppa i capillari, i nervi periferici, il sistema connettivo, gli enzimi necessari per conservarlo. Praticamente il corpo si abitua a quel peso e tende a mantenerlo: è il cosiddetto “FAT POINT”. Quindi è importantissimo perdere grasso lentamente, e soprattutto mantenere il nuovo livello di grasso per almeno un anno, in maniera da riassestare il proprio FAT POINT.
Giuseppe Piccione, laureato in scienze biologiche
dottorato di ricerca in chimica degli alimenti
esperto in qualità ed igiene degli alimenti e nutrizione umana.